Nelle discipline marziali giapponesi che prevedono lo studio di tecniche di spada ci si imbatte prima o poi nel concetto di “Setsunin tō” (spada che dona la morte) e di “Katsujin ken” (spada che dona la vita).
Sono espressioni che hanno un suono molto esotico. E hanno quel tanto di profumo di zen che basta per copiarle e incollarle in un post su Facebook per mostrare quanto siamo dentro la cultura giapponese e che marzialisti di prima classe siamo diventati.
In realtà ci dimentichiamo di due concetti fondamentali. Che la gran parte dei nostri contatti tende a non capire granché delle nostre sparate più o meno nipponiche perché pian piano diventiamo oscuri, criptici. E che quello che facciamo serve nella misura in cui incide nella nostra vita, migliorandola.
Così, quando qualche giorno fa è venuta alla ribalta dei giornali la penosa storia di un uomo che, scoprendo nei cassetti le lettere che la moglie mandava all’amante trent’anni prima, ha tentato il suicidio per la disperazione, mi sono venute appunto in mente queste due definizioni della spada.
E’ un dato di fatto che tutti abbiamo esperienza del tradimento. Direttamente o indirettamente. C’è chi tradisce e chi viene tradito. Nelle aspettative, nei sentimenti, nelle relazioni, nell’intimità, nel lavoro, nel rapporto con se stessi.
In questo spettro di vetri infranti c’è un caleidoscopio di emozioni e di reazioni: laddove il tradimento avvenga all’interno di un rapporto di coppia, gli studiosi hanno evidenziato come le reazioni del sistema nervoso umano siano in tutto e per tutto analoghe a quelle che si provano quando si ha notizia di un lutto.
E la statistica aggiunge anche che quando questo avviene non è sufficiente metterci una pietra sopra e far finta che non sia successo niente. La cronaca infatti dice che la brace del sospetto e della delusione cova sotto la cenere del tempo che passa. E prima o poi divampa, in modo distruttivo.
La pratica della spada è uno degli strumenti chiave per sviluppare precisione, decisione, risolutezza, chiarezza.
Simbolicamente, perché fisicamente, la spada determina un prima e un dopo che non possono essere messi sullo stesso piano.
Ma ci sono tagli e tagli.
Il bisturi che porta alla luce un tessuto malato e ne permette la guarigione opera una ferita profonda. Una ferita di cui ci sarà comunque traccia. Ma è un taglio che porta la vita, esattamente come quello che il medico opera nel taglio cesareo.
La lingua tagliente che sprofonda nella depressione un ragazzino border-line spingendolo ad atti inconsulti non è dissimile dai colpi di machete sotto i quali cadono, ancora ai nostri giorni, inermi portatori di speranza.
Qual è la vita di cui è portatrice la spada? In che misura possiamo dire che dietro un nostro banalissimo shomen (che sia fatto con una spada o a mani nude) noi possiamo intuire qualcosa di più grande, di cui siamo portatori, depositari e destinatari al tempo stesso?
La domanda non ha necessariamente una risposta definitiva. Tuttavia ci piace pensare che in un mondo in cui ci limitiamo spesso passivamente a reagire a quanto accade, portare la vita sia invece un’azione, un’iniziativa alla nostra portata.
Portare la vita nelle relazioni può significare sforzarsi a farci un po’ più “amabili”, scendendo da piedistalli che creano muri.
Può voler dire mettersi a disposizione per servire il compagno di pratica e diventare reciprocamente strumenti per migliorare (e orecchie per ascoltarci).
Può -e probabilmente deve– diventare esercizio e testimonianza di perdono, a partire dalle piccole cose fino a poter essere capaci, laddove si riesca, a ridare e ridarsi la vita, senza essere inchiodati al passato, per quanto traumatico e per quanto brutto.
Armonia, Arte della Pace, etichetta, virtù dei samurai, e così via. Tutte cose vere e belle, per carità.
Ma poi all’atto pratico, se quando mi muovo, quando parlo e quando penso non faccio altro che essere un dispensatore di morte, che persona sono e che persona sto diventando?
E perché sono sempre gli altri i cattivi, quelli che tradiscono? Che tradiscono il mandato? Che vanificano le mie attese?
E io in tutto questo che faccio, oltre a vestirmi di bianco (e talvolta di nero) e mettermi l’ennesima maschera pur di non vedere che anch’io, in fondo in fondo….?
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