In queste settimane una petizione online ha scatenato una lunga serie di polemiche all’interno della United States Aikido Federation.
Un gruppo di donne, tutte aikidoka, ha sostanzialmente indirizzato alla federazione statunitense una richiesta formale di affrontare, discutere e risolvere alcuni punti controversi legati al mondo delle pari opportunità.
Queste cinque richieste (una task force sull’uguaglianza di genere, la rappresentanza nelle strutture, eventi e attività federali di un numero di donne proporzionale alla popolazione, la rimozione di barriere per l’avanzamento di “carriera” a tutti i livelli di pratica, l’inclusione di donne nella Commissione Tecnica, la trasparenza con la pubblicazione delle statistiche legate al genere) hanno avuto una risposta ufficiale della USAF e un’ampia eco sui social network, non soltanto nel mondo americano.
Siccome per motivi di lavoro ho partecipato attivamente ad alcuni progetti europei sull’ampio tema dell’uguaglianza di genere, credo valga la pena fare qualche riflessione che vale tanto per chi pratica una disciplina marziale (non solo l’Aikido) quanto in generale per una contestualizzazione più ampia.
La Commissione Europea inquadra principalmente il tema uguaglianza di genere (gender equality) come un insieme di azioni volte a promuovere la pari indipendenza economica per donne e uomini, colmare il divario retributivo di genere, promuovere l’equilibrio di genere nel processo decisionale, porre fine alla violenza di genere e promuovere la parità di genere al di fuori dell’Unione Europea.
Storicamente, questa prospettiva ha prodotto nel tempo diversi livelli di pronunciamenti a livello europeo, tra cui la direttiva più famosa, la 2006/54/EC, in tema di pari opportunità nel campo dell’occupazione. Le direttive europee sono vere e proprie fonti del diritto per gli stati membri, che devono declinare nei propri ordinamenti i principi in esse contenuti.
E’ ovvio (ma non così chiaro a molti) che l’uguaglianza di genere ha implicazioni molto più ampie del solo aspetto economico-occupazionale, per quanto importante. Ed è altrettanto ovvio (ma ancor meno chiaro a molti) che una società che non affronti e risolva in maniera organica le questioni relative alle disuguaglianze di trattamento della donna nella società, non può ragionevolmente né credibilmente essere in grado di proporre alcun tipo di stabile politica sulle disuguaglianze per le minoranze e per l’identità di genere.
Tornando al frusciante mondo dei piedi sui tatami… Come viene affrontata la questione in Italia?
A livello istituzionale, il CONI è dotato di un Comitato Pari Opportunità, volto in maniera preponderante a garantire equità e pari dignità a livello professionale e, in generale attivo a promuovere indagini e ricerche dirette all’individuazione dei reali bisogni all’interno di Coni Servizi S.p.A. e delle Federazioni Sportive Nazionali sul tema delle Pari Opportunità e finalizzate alla formulazione di proposte concrete volte a rimuovere gli eventuali ostacoli che potrebbero interferire con l’accesso ad opportunità di formazione, aggiornamento professionale, orario ed organizzazione del lavoro, progressione di carriera, attribuzione di mansioni particolari e/o incarichi di responsabilità, assegnazione alle strutture.
Un rimando alle regole di democrazia e ai principi di pari opportunità è contenuto anche nello Statuto Federale della FIJLKAM, che del CONI è diretta emanazione.
Ma più in dettaglio, qual è la situazione in Italia?
Iniziamo col ricordare che, dati CONI alla mano, nel 2017 la quota delle atlete ha raggiunto il suo massimo storico con il 28,2% contro il 71,8% degli atleti maschi, su 4,7 milioni di tesserati complessivi. In questo contesto, che rappresenta una disugaglianza numerica, si innestano innumerevoli casistiche di disuguaglianze sostanziali (basti pensare al calcio, in cui alle atlete di serie A non è riconosciuta ancora la possibilità di essere inquadrate con contratti professionistici come avvviene nel settore maschile).
Si capisce quindi come mai sia ancora attuale la Carta dei Diritti delle donne nello Sport, promossa nel 1985 dall’UISP, che ha sollevato l’istanza della corretta rappresentazione delle presenze femminili nello sport a tal punto da diventare il pilastro della Risoluzione Europea (1987) su “Donne e Sport”, confluita poi in una risoluzione più ampia nel 2003.
E sui nostri tatami?
L’iniziativa del 2015, Aikicensimento, ha messo in luce la generalizzata e diffusa carenza di presenze femminili nei corsi. In media, sulla base dei dati disponibili, le donne rappresentano il 13% della popolazione di praticanti.
Che dire?
E’ possibile e doveroso fare lo sforzo di guardare oltre i dati e tracciare una traiettoria al di là delle (tante belle) parole e degli impegni solenni a livello istituzionale, nella convinzione che l’uguaglianza sia qualcosa di più serio e profondo della fredda parità numerica.
E’ un dato di fatto che i nostri ambienti facciano molta difficoltà a creare una proposta che valorizzi pienamente tanto la polarità maschile quanto quella femminile, nel rispetto delle reciproche differenze.
In questi anni in cui abbiamo visitato numerose realtà in giro per l’Italia, ci è capitato di vedere un po’ di tutto. “Uomini” che, affermando la loro convinzione che l’Aikido non fosse adatto alle donne, sfogavano la loro patologia sul polso della malcapitata di turno. Donne costrette ad assumere modi e atteggiamenti maschili, snaturandosi, per mettersi alla pari dei loro compagni di pratica.
Uomini stupiti del fatto che i loro corsi, basati su un uso smodato della preparazione atletica ipercompetitiva e della forza non siano frequentati da donne. Donne che acconsentono ad alimentare l’ego dei loro senpai o sensei facendosi fare le peggio tecniche. Uomini capaci di essere risoluti ma anche accoglienti. Donne capaci di essere femminili senza disdegnare una chiarezza e una marzialità cristalline. Uomini che manipolano i principi della disciplina per calpestare e insozzare il cuore di compagne o, peggio, di allieve. Donne talmente avvezze a certi linguaggi comportamentali di una società relazionalmente instabile che usano la loro femminilità per manipolare i propri compagni o, peggio, i propri istruttori.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, senza giudizio, come lunga lista delle casistiche.
L’armonia e la non dualità a cui punta la pratica marziale e l’Aikido in particolare, vivono necessariamente della valorizzazione delle identità e delle differenze.
Non si può forzare la fusione, non si può forzare l’armonia. Questo non vuol dire che non sia giusto lavorare per un sempre maggior riconoscimento delle pari opportunità, anzi. Ben vengano tutti gli strumenti di riflessione e di azione per facilitare l’accesso di tutti ad ambienti in cui c’è una reale necessità di aria fresca che spazzi via l’odore del testosterone fine a se stesso.
L’armonia si può creare solo nel costruire, custodire, arricchire la relazione. Una petizione online, una risoluzione europea, una legge, uno statuto, una percentuale… Tutto ciò da solo o insieme non può portare ad un passo in più nella via della valorizzazione del genio femminile e dell’essere umano se non si lavora quotidianamente per uscire da se stessi e andare verso l’altra persona.
La quotidiana scoperta della sensibilità sincera nella mascolinità e della determinazione pulita nella femminilità può portare ad avere qualche presenza femminile in più sul tatami e, forse, ad un mondo di relazioni più eque e più valorizzanti nella società.
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