Ci sono molti modi di studiare il conflitto, ma pochi sono così efficaci come viverlo in prima persona.
Succede infatti che siamo talmente abituati a vivere situazioni di attrito come routine che spesso lasciamo che sia il pilota automatico a viverne le sfaccettature -e gli insegnamenti- al nostro posto. L’assuefazione è un forte alleato del conflitto.
Il conflitto, difatti, non è un’esperienza riservata solo ad alcune categorie. Uno screzio sul posto di lavoro, un’angheria a scuola, una parola di troppo a casa, un’automobile che ci taglia la strada: nessuno ne esente.
L’assuefazione, dicevamo. Il nostro lavoro, visto in una determinata prospettiva, è dedicato quasi totalmente a creare o ritrovare le condizioni di un equilibrio. L’attività di un legale punta a ristabilire equità e il diritto tra le parti, mediando. Così come pure l’attività di sviluppare progettualità per un’impresa si basa sull’impalpabile arte di mediare tra necessità, difficoltà, esigenze, malumori,… Dopo un po’ di tempo ti sembra normale dedicare una parte considerevole del tuo tempo alla ricerca di un punto di equilibrio tra le parti, o perlomeno una non belligeranza.
Ma… E’ così normale? E soprattutto: alla lunga serve?
In questi giorni abbiamo concluso una vertenza che ci riguardava direttamente. Senza troppi giri di parole: seppure in buona fede, avevamo ripubblicato sui nostri mezzi di comunicazione un’immagine coperta da copyright. Una piattaforma di intelligenza artificiale ha individuato automaticamente questa immagine ed si è messa in moto la macchina della richiesta di risarcimento.
Per quanto abbiamo fatto attenzione nel passato, utilizzando materiale copyleft o con licenza, è bastato un singolo calo di attenzione per arrivare fin qui. Portiamo a casa quindi la rinnovata consapevolezza che l’approccio al mondo esterno richiede un approccio da professionisti anche per quanto riguarda un semplice blog divulgativo.
Non importa che stiamo parlando di Arti Marziali, di promuovere la cultura e la filosofia dell’Aikido attraverso un sito, un corso, una dimostrazione, una conferenza. Non importa che tutto ciò sia marcatamente non-profit (anzi, di solito la passione costa e ci si rimette pure). Se si intende portare un contributo qualitativamente professionale con attenzione alla caratura tecnica dei contenuti, occorre essere professionisti (o tendere ad esserlo) a tutto tondo. A nulla vale essere competenti se poi si scivola nel dilettantismo (ad esempio nella comunicazione). Il principio di kaizen, insomma.
Il tutto con buona pace di chi sorride di fronte al concetto di “tecnico professionista”, che prima ancora di essere uno status lavorativo è una condizione mentale ed operativa.
Tornando a questa esperienza, sarebbe sbrigativo dire che si è chiusa con una transazione economica conciliativa tra le parti.
Beninteso: è vero che dietro la stragrande maggioranza dei conflitti e degli attriti nelle relazioni si nasconde un puro interesse economico. Ma c’è di più.
Nel principio della vertenza sono stati chiari almeno tre momenti distinti:
- L’interesse di una parte a creare un forte dualismo basato sui fatti, accentuando le responsabilità (o come accade spesso, sottolineando difetti e colpe);
- La reazione -in questo caso, nostra- per depotenziare la realtà del fatto e la creazione dentro le nostre teste di un ventaglio di scenari ipotetici (“se chiedono questo, allora…”). In altri termini il fatto ci ancorava alla realtà ma il nostro sistema ha comunque provato a distanziarsene.
- L’incontro tra le parti in cui è stato possibile parlare e finalmente confrontarsi
E, come accade sempre, l’incontro ha cambiato le prospettive. Anzi.
Nell’incontro,
- La parte che aveva avviato nei nostri confronti tutta la vertenza, ci ha tenuto a farci (non “darci”) una lezione. Non era dovuta e non era necessariamente motivata da eccesso di chiarezza. Si percepiva, forte, l’esigenza di un professionista di essere riconosciuto come tale e non meramente, come spesso accade a chi fa i nostri lavori, un glaciale persecutore. La dualità è rimasta, ma si è stemperata verso una prospettiva che va oltre un gioco a somma zero (*), in cui alla fine tutti potessero lasciare alle spalle una situazione che non era gradita a nessuno.
- Noi abbiamo potuto essere ascoltati, a nostra volta, esplicitando le nostre ragioni e concorrendo ad una definizione soddisfacente della vertenza
- L’origine del conflitto, ovvero l’aspetto puramente economico -riconoscere il diritto d’autore all’interessato- sembrava essere una questione estranea rispetto al riconoscimento, tanto delle pretese, quanto dei principi esposti, quanto della persona che le portava avanti. Tanto è vero che la proposta si è chiusa ad un valore inferiore, seppure simile, a quello di mercato.
In conclusione: vivere per costruire la pace non significa vivere in una condizione di non belligeranza. La prima è una condizione attiva, la seconda è un’opportunistica tendenza passiva.
I conflitti avvengono. Probabilmente avvengono scatenati dalla necessità di essere riconosciuti, ancor prima che per esigenze reali o per avanzare pretese e diritti.
Che sia nell’esecuzione di una tecnica ben definitia, o in un randori, o in un jiyu-waza, se affiniamo bene i sensi, accade anche sul tatami. Si arriva presto al momento in cui non è più chiaro il motivo per cui noi o il nostro compagno attacchiamo.
Quindi, dietro una tecnica sporca, dietro un attacco poco chiaro (pardon, poco sincero), dietro una persona che di fronte alle difficoltà si lascia andare, dietro un bicchiere di troppo per dimenticare un fallimento, c’è certamente un conflitto ma prima ancora c’è una persona che chiede di essere riconosciuta e incontrata.
Noi siamo questo. E questa è la nostra pratica.
(*) Nota: il nostro portafogli avrebbe voluto prendere parte al “gioco a somma zero”, però non tutti sono stati d’accordo. E’ anche vero che le lezioni importanti si pagano. Pazienza!
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