La rivoluzione del kaiten – 回転

Un semplice termine che descrive un movimento del corpo, può essere letto a differenti livelli?

Quando si parla di kaiten, qualsiasi praticante che sia stato per più di un mese su un tatami, associa immediatamente il tai sabaki, il movimento del corpo di rotazione sul proprio asse e di cambio di direzione.

E’ tutto qua?

Nella prospettiva fisica e biomeccanica, certamente no. Una semplice rotazione rivela quanto riusciamo ad usare in modo armonico e integrato il corpo o meno, rispettando o meno la sua struttura e le sue esigenze da un lato e finalizzandole alla pratica dall’altro. Lentamente e costantemente, si inizia a percepire il movimento funzionale grazie ai segnali che mandano la pianta dei piedi, i talloni, le caviglie, i muscoli delle gambe, le ginocchia  e le anche. La sensazione, dopo un po’ di tempo, è quella di forte stupore: verosimilmente si scopre di aver usato il proprio corpo nel modo meno funzionale, a volte dannoso, irrispettoso per legamenti, giunture, muscoli, cartilagini.

Le anche si risvegliano, piano piano, e si inizia a percepire la propria asimmetria, l’esistenza eventuale di blocchi e di rigidità su cui poter lavorare e la cui origine può non essere così immediata da identificare nel nostro sistema psicofisico. Contemporaneamente, si inizia ad assaggiare, all’inizio quasi per caso, poi sempre più costantemente, la sorgente della “forza senza forza” che è insita nell’utilizzo del nostro corpo…Semplicemente usandolo per come è stato creato.

Il kaiten diventa quindi la molla che amplifica lo squilibrio del partner di pratica e che carica l’esplosività di una tecnica di proiezione.

E’ tutto qua?

Mettiamola così: se ogni praticante giungesse alla piena consapevolezza e alla piena padronanza del movimento, a livello puramente tecnico ci sarebbe di cui essere soddisfatti. E’ però evidente che la realtà della pratica non restituisce questa fotografia, per tanti motivi, inclusi i limiti psicofisici che ciascuno di noi si porta dietro.

La tensione evolutiva della pratica dal ko-tai -la dimensione solida, quadrata, iper-razionale- al ki-tai -la dimensione sottile, quella più spirituale-, passando per il livello intermedio, il ju-tai -la dimensione più fluida- vive della contemporanea compenetrazione di questi tre livelli, tanto per il principiante quanto per il sensei ascetico. Muta il livello della percezione delle cose e la capacità i trasformare tale percezione in azione. Se però il tutto si cristallizza in un automatismo del corpo, presto si rischia di regredire ad una dimensione esclusivamente fisica.

Col rischio che chi si riempie la bocca di ki-tai, si autoconfini nel livello più fisico della pratica, senza accorgersene.

Quindi è bene, di tanto in tanto, rispolverare la semantica di ciò che per abitudine rischia di essere addirittura frainteso, se non dimenticato in un cassetto della nostra anima.

回転, kaiten, rotazione o rivoluzione intorno all’asse (kaitenjiku). Sì ma che tipo di rotazione? I kanji di cui è composta la parola non vengono granché in aiuto. Da una parte una bocca dentro una scatola per indicare la “rotondità”, dall’altro un carretto con a fianco un due e il simbolo del sé. A volte è bene non andare troppo a impelagarsi nell’etimologia e nella linguistica.

Certamente un carretto che gira in tondo tirato in entrambi i sensi di rotazione da una persona che declama a gran voce la merce che trasporta, fornisce una suggestione.

Il kaiten sushi, il mitico nastro trasportatore su cui i piattini di sushi escono dalla cucina e viaggiano verso gli avventori seduti al bancone, è ulteriormente evocativo.

Però. (Quasi sempre c’è un “però”).

Che si tratti di un carretto che gira in tondo o di un nastro trasportatore che entra ed esce dalla cucina, la nostra mente occidentale non può che cogliere la circolarità del movimento. E il kaiten, come tai sabaki, non è propriamente circolare. E allora?

Proviamo ad allargare i nostri orizzonti. Pensiamo al “moto di rivoluzione” di un corpo celeste. Ovvero a quella traiettoria che tutti noi stiamo compiendo in questo momento sul nostro pianeta Terra intorno al Sole.

In questa prospettiva, la rotazione avviene perché esiste un “centro di massa” che ne determina la traiettoria. Nella relazione conflittuale (sul tatami come fuori), pur non perdendo la propria individualità, le parti creano un’entità unica e nuova, che determina dinamiche distinte dalle dinamiche individuali.

Il kaiten svolto in solitaria non è altro che un movimento a 180 gradi. Una sorta di tergicristallo umano vestito da praticante di arti marziali. Ma il kaiten innescato da una presa o da un attacco, è un movimento che avvolge l’attacco per poi restituirne l’energia con un secondo avvolgimento in cui l’energia viene amplificata e in qualche modo, letteralmente, “circondata”.

La portata rivoluzionaria del kaiten quindi è quella di considerare la completa integrazione dell’attacco nella propria sfera di ricezione e azione. Detto in altro modo, accettare la dualità per superarla.

Se poi, grazie al rispetto che nasce dall’abitudine a guardare il mondo come lo guardano gli altri, mettendoci nella stessa loro prospettiva almeno per quell’istante del kaiten, allora possiamo dire che siamo portatori di una vera, genuina e duratura rivoluzione.

 

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