Se il partner si blocca, tutti solitamente insistono a spingere e premere sul punto di contatto. Io invece rilasso il punto e cambio direzione. A quel punto, se il mio compagno è un essere umano vivente, inizierà a muoversi
Tuttavia, ci sono anche molti esseri umani che non sono vivi.
Due anni fa, poco prima che tutto si fermasse, eravamo in questi giorni a Roma al seminar di Seishiro Endo, il quale cercava di trasmettere le sue prospettive usando più o meno queste parole. Un suo leit-motiv.
Oggi sembra che la macchina si sia rimessa faticosamente in moto. Le scorie di quanto abbiamo e non abbiamo vissuto si riverberano a livello fisico, emotivo, relazionale, tecnico. Non potrebbe essere diversamente.
E’ stato tentato di dare delle definizioni su cosa siano o non siano le discipline che pratichiamo. Alcune sono molto evocative: l’Aikido come Zen in movimento…
Se dovessimo fermarci al solo piano fisico, non sarebbe sbagliato dire che l’Aikido sia una battaglia quotidiana contro la rigidità.
Vedendomi, vedendoci da fuori, si coglie perfettamente questo. Da principianti si incomincia tutti con movimenti molto nervosi, si procede a scatti. La cosiddetta “intelligenza del corpo” deve riappropriarsi della naturalezza dei movimenti per la quale siamo stati progettati.
Progressivamente, anche attraverso uno dei maggiori maestri, il dolore autoinflitto da movimenti sbagliati, ci si scioglie. I movimenti diventano più fluidi ma…il tempo scorre e l’elasticità del corpo cede spazio fisiologicamente a nuovi limiti e rigidità.
La ricerca costante di nuovi punti di equilibrio dinamici è uno degli obiettivi di una pratica fisicamente ben impostata: garantire a se stessi oggi quello che fisicamente era facile fino a ieri, è un buon modo per costruire un domani in cui continuare a fare quello che ci piace…Perché ci fa bene.
Certo, in questa prospettiva, gradualmente, converge tutta l’impostazione della vita “fisica” del praticante: dall’alimentazione al sonno, dalla ginnastica a supporto agli stili di vita.
Resta il fatto che, alla riapertura dei corsi, anche i più scrupolosi solitamente irrigidiscono una spalla, tirano a sé uke, non seguono tori. Non fluiscono. E’ normale (almeno dal punto di vista statistico).
Questo perché se fosse solo questione meramente fisica, ci sarebbe una situazione prestazionale da “dentro o fuori”. E l’Aikido (il Karate, il Judo, il Ju Jutsu,…) sarebbe riservato solo a determinati soggetti con determinate qualità fisiche. Il che, all’interno del perimetro di determinate prestazioni, è anche vero.
Eppure ci si imbatte in persone che apparentemente non hanno una condizione fisica ottimale secondo i canoni atletici che sono capaci di una gestione morbida della forza, tremendamente efficace. E in praticanti palestrati che conoscono solo il sacro verbo delle mazzate.
Nello studio classico della Morale, a un certo punto, si definisce il “contenuto dell’azione”, quell’atto dell’essere umano in cui non esiste solo la dimensione fisica del “fare”. Esiste la dimensione dell'”agire”, ovvero dello “spingere e sollevare” il fare verso un fine che liberamente si è scelto di perseguire.
Bisognerebbe interrogarci spesso su questo. Se diciamo che l’Aikido è una “scuola di libertà” e poi il nostro “fare” è esclusivamente muscolare, contratto, teso e pronto a scattare, probabilmente c’è un problema, non solo fisico.
Se pensiamo che la pratica di una disciplina debba essere solo finalizzata senza un “fare” fisico, anche.
Se dentro e fuori dal Dojo il nostro “fare” prevale sul nostro “agire”, verosimilmente siamo persone più propense a parlare che ad ascoltare. A difendere che a dialogare. A imporre che a proporre. Spesso in modo passivo-aggressivo. Spesso dissimulando nella fuga, nell’arroccamento sulle proprie posizioni, nello stimolare un pietismo commiserante, nel cambiare in continuazione il punto di una discussione -di una tecnica- il desiderio recondito di imporre la propria rigidità. Facciamoci caso.
Riempirci il corpo di waza, la bocca di kuden più o meno ben pronunciati e compresi, la testa di immagini proiettate di noi stessi riflesse magari in vagonate di foto in candidi keikogi sul web non ci salva dalla domanda di fondo: siamo esseri umani vivi?
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