Può una disciplina aiutare a indagare meglio il fenomeno che chiamiamo “vita”? E se sì, come?
Di fronte alla vita, siamo sopraffatti dai nostri limiti. Tutti abbiamo una diretta esperienza di essa, perché tutti ne siamo attraversati e da essa siamo circondati. Definirla in modo compiuto o schematizzarla in maniera tale da poterla a nostra volta dare a della materia inerte, questo va oltre le nostre possibilità.
La Fisica, la Biologia, la Chimica, la Medicina e tutte le scienze che ne derivano ci aiutano a comprendere sempre più determinati meccanismi. Sappiamo modulare gli elementi naturali perché i processi vitali possano attecchire al meglio. Riusciamo a pianificare e ampliare la produttività di piante e animali. Riusciamo a estendere la durata della vita di molti individui, curandoli.
Tuttavia non riusciamo a dire a un mucchio di muscoli, tendini, ossa e sangue: vivi! Abbiamo il potere di indagare la materia ma non di renderla viva.
La storia dell’umanità testimonia piuttosto il contrario. Da che se ne ha memoria, si investono ingenti risorse per raffinare sempre più la capacità distruttiva per risolvere un conflitto nel modo più netto, veloce e impattante (per il nemico) possibile.
Le Arti Marziali, per quanto sportivizzate, per quanto private magari dell’aspetto competitivo, affondano le radici in questo solco. Ogni soldato dell’esercito giapponese, al giorno d’oggi, è equipaggiato con una Heckler & Kock Sfp 9M e un fucile d’assalto calibro 5,56. Non marcia vestito in gi, non attacca con chudan tsuki, non si difende con gedan barai, a meno che la strategia non sia quella di voler far morire dalle risate l’eventuale esercito aggressore.
Tuttavia, ancora oggi, milioni di persone trovano utile la pratica di una disciplina, che usi la grammatica di un linguaggio di combattimento di per sé superato dalle armi. Ed è interessante che in tutti gli eserciti, soprattutto nei corpi di élite, lo studio di tali discipline sia un elemento fondamentale della formazione militare.
Evidentemente c’è un indubbio valore tecnico, in caso di corpo a corpo. Ma c’è dell’altro.
Chiunque, a qualsiasi livello, pratichi qualsiasi tecnica, sente come sia molto più facile ledere che preservare. Come la scorciatoia dell’escalation possa essere la soluzione facile al conflitto.
Riesce molto, ma molto meno facile né immediato rendere un attacco inoffensivo senza infierire, senza provocare dolore, senza aggiungere la propria forza alla forza ricevuta. In una parola, senza violenza.
Su queste pagine avevamo già trattato i concetti giapponesi del “Setsunin tō” (spada che dà la morte) e di “Katsujin ken” (spada che dona la vita). La Storia ha visto coi suoi occhi polverosi infinite foreste di spade ferire a morte, ma mai nessuna ridare la vita che aveva appena reciso.
Allora che senso ha parlare di una spada, di un colpo che dona la vita? Certo, in alcuni casi, questa frase esotica può rappresentare quel comodo rifugio concettuale di chi, dispensando leve articolari, lividi e lussazioni, si autoconvincerà di essere un santo solo perché convinto di “dare la vita”.
Credo fortemente che l’allenamento, diretto sotto una supervisione tecnica e di indirizzo matura, possa e debba aprire finestre di consapevolezza sulla nostra natura. Una natura fatta di e per la vita ma incredibilmente attratta dalla capacità di distruggerla, manipolarla, pervertirla.
Viviamo vite molto dematerializzate. Così molti di noi credono di essere uomini e donne di pace soltanto perché non viviamo in una guerra. Solo perché -fortunatamente- il porto d’armi non è libero.
Così, quando si apre la valvola della nostra naturale inclinazione, il malcapitato di turno sperimenta tutto il nostro pacifismo ed il nostro equilibrio interiore. Se poi ci aggiungiamo sopra anche qualche affermazione circa qualche principio orientale, raggiungiamo picchi di ipocrisia e di automanipolazione da Guinnes dei Primati.
Il Dojo dovrebbe essere il luogo dove si viene guidati a prendere contatto anche con questa nostra parte per riequilibrare la nostra capacità di scelta, perché quella che va a riequilibrarsi è la modalità di interpretazione attraverso la quale riusciamo a comprendere ciò che stiamo vivendo. Meglio: impariamo a non prenderci in giro e a capire chi siamo e come siamo fatti.
Tecnica dopo tecnica, dunque, ci si può affacciare sull’abisso denso di potenziale e di mai sopite cicatrici che è la nostra vita e prendere contatto con essa, imparando ogni giorno ad abitarla, ad abitarci, a sentirla fluire potente, più potente di qualsiasi nostro limite.
In questo orizzonte, in questo continuo oggi in cui noi possiamo decidere se, come e perché indirizzare i nostri passi su un sentiero, ci sono alcuni indicatori che possono tornarci utili.
Durante la pratica sorge talvolta qualche aspetto di noi/del nostro partner che ci sorprende e che non ci aspettavamo?
Riusciamo a non prendere sul personale quanto accade?
Riusciamo, ogni tanto, a percepire le esigenze dell’altro anche se non le esprime a voce?
Percepiamo, di tanto in tanto, la sensazione della perfetta assurdità di attaccare/reagire?
…
Siamo felici?
Se la risposta a queste domande è sì, allora probabilmente siamo vivi e, attraverso noi, la vita può essere comunicata e trasmessa. Del resto, citando un grande insegnante di Aikido, la pratica si fa solo tra persone vive, eppure ci sono molte persone che esistono senza essere vive.
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