“…Stiamo con i piedi per terra”.
Correva l’anno 1990 e con questa frase Vasco Rossi apriva il suo concerto a Milano.
Nella pratica dell’Aikido si incontrano, semplificando molto, due opposte prospettive. Da un lato chi vive la disciplina da un punto di vista strettamente materiale. Interessano le tecniche, si ricerca l’efficacia, gli allenamenti inseguono la funzionalità e la prestazionalità.
Dall’altro lato troviamo chi pratica ricercando la dimensione spirituale. In questo caso interessano i simbolismi, la ricerca si estende su aspetti filosofici, si privilegia l’aspetto energetico, spesso si approfondiscono temi legati alla cultura ed alla religione orientali.
Ovviamente questa è una semplificazione. In entrambe le categorie troviamo individui capaci di una pratica di alto profilo tecnico. Allo stesso modo troviamo, in ambo i casi, notevoli contraddizioni. Persone molto convinte di essere dotate di una tecnica sopraffine che in realtà sono molto approssimative e guru del fast food della spiritualità in salsa new age dall’altro.
Percorrere la via di mezzo -potremmo azzardare: una via equilibrata sul “ponte fluttuante tra Cielo e Terra” è più interessante. Certamente è più difficile; pertanto è ovvio che si sia tentati di prendere la scorciatoia del terminator o del guru. E’ meno frustrante (forse).
E’ ovvio che ognuno sceglie la prospettiva che meglio risponde alle proprie esigenze: non è “necessario” che tutti percorrano il medesimo sentiero. Ci sarà sempre chi è più polarizzato dall’aspetto tecnico e chi da quello più sottile.
In entrambi i casi si praticherà Aikido, con quel kanji “ki” (氣) che, ci piaccia o meno, ha a che fare con qualcosa che fisicamente non è rilevabile. O misurabile.
Aite no ki wo dasu (対手の気を出す), un kuden che si sente risuonare tanto nei dojo più “tecnici” quanto in quelli più “sperimentali”. Ne avevamo già parlato in altri termini su queste pagine. Un detto che generalmente vine tradotto con un “assorbo il ki del mio compagno”.
Nel recente “Kagami Biraki” che ha segnato l’inizio dell’anno di pratica nella nostra comunità, abbiamo avuto modo di riflettere su questo detto. In particolare sul verbo, 出す, (dasu, far uscire).
Bene, per gli studiosi di etimologia, il kanji 出 rappresenta un piede che esce da una fossa o un piede che, muovendosi, lascia una visibile impronta.
“Saper assorbire il ki” di una persona significa inevitabilmente attivarne il movimento. Letteralmente, far muoverne i piedi.
Meglio: il legame invisibile tra due persone (ki musubi) è indissolubilmente legato all’uscire dalla stasi e ad un incontro fisico. E viceversa.
Ironicamente, Vasco Rossi, parlando di cielo, di passeri e di piedi per terra in modo dicotomico, introduceva una sua canzone che si intitola “Muoviti”.
Altrettanto ironicamente, i luoghi di pratica che privilegiano la dimensione fisica della tecnica richiedono implicitamente un grande livello di intesa tra praticanti, pena un alto rischio di farsi male.
Viceversa, i luoghi di pratica più aulici, richiedono implicitamente una grande attenzione alla coordinazione fisica e al movimento.
Allora…Il cielo lasciamolo pure ai passeri mentre noi, con i piedi per terra, li vediamo volare. Ma non neghiamoci un pezzettino di cielo puro in quell’attimo, che dura una frazione di secondo -un’eternità- in cui stacchiamo i piedi da terra per volare all’interno di una proiezione.
In quel gusto di eterno che dura un lampo c’è l’integrazione che inseguiamo a fatica allenamento dopo allenamento. C’è l’anticipo di quanto è dietro quell’apparenza che ci fa pensare che non possiamo volare solo perché non siamo passeri.
Disclaimer: Foto di luizclas da Pexels