Scena: diciotto bambini di sette, otto anni, durante un’attività legata al summer camp della loro scuola. Per molti: prima esperienza in assoluto su un tatami.
Dopo un (bel po’) di esercizi fisici e di coordinazione a forma di gioco, spunta un ambizioso desiderio nella testa degli unici adulti (i tecnici): “trasmettiamogli l’idea che quando arriva un attacco, la prima cosa furba da fare è togliersi dalla linea di attacco”.
Che grande idea! Che tecnici competenti! Che sublimi cultori della pedagogia!
E, finché l’esercizio proposto è stato quello di immaginare che arrivasse un treno, non è stato così difficile vedere questi bambini saltellare qua e là per scansare il trenisegnante.
Ma quando il sublime cultore della pedagogia ha pensato bene di passare dall’immagine del treno a dire che “tutti noi, quando arriva un attacco al viso, ci scansiamo”, lì la vita e la sua realtà hanno bussato alle spalle del tecnico per insegnargli qualcosa.
Primo fendente, lento lento, verso un visino: niente. Magari ho pescato il bimbo ancora assonnato.
Secondo, verso un altro: niente. Magari non sono stato fortunato.
Terzo, quarto, quinto…
Per fortuna è estate ed è stato abbastanza immediato dire che la nostra mano era una zanzara che sibilava e che voleva pungere il naso o le guance.
Allora, solo allora, il medesimo fendente è stato evitato.
L’educazione è cosa di cuore. Ma è anche e soprattutto materia delicatissima e che richiede una preparazione incrementale, non improvvisata. Insegnare qualsiasi cosa a dei bambini è qualcosa che richiede competenze e professionalità che sono il frutto di anni. Traslare sul tatami la nostra esperienza maturata in tanti anni a servizio della formazione giovanile, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle aule universitarie, non è né automatico né semplice. Non è garanzia che sia efficace. E’ stupendo ma richiede l’umiltà di mettersi in discussione, sempre. Fortunatamente esistono fior docenti e formatori che erogano supporto per chi vuole insegnare e ambisce a insegnare al meglio.
Il punto però è un altro e cioè che, semplicemente, il bambino non concepisce l’attacco. Perché mai una persona dovrebbe tirare un fendente sulla sua testa? Il bambino, nella sua complessità evolutiva, è molto semplice: le cose che non hanno senso, che non hanno un perché, non richiedono il minimo investimento.
Di che cosa hanno veramente bisogno i bambini? Di imparare ad attaccare? A difendersi?
Certamente i bambini, dal punto di vista fisico, hanno sempre più necessità di spazi e momenti per educare quelle competenze psicomotorie e relazionali che un tempo si sviluppavano correndo nei cortili, giocando nei giardini con i compagni, praticando giochi organizzati in oratori e campi sportivi.
Ci si rende conto, purtroppo, che molti bambini non ricevono questi stimoli: è una gran pena constatare che un bambino non sa…correre.
E’ una pena ancora più grossa vederli sballottati da un’attività ad un’altra. La nostra società disgrega l’unità familiare, a partire dall’imporre tempi e modi di lavoro e di consumo che mettono all’ultimo posto le necessità della persona, specie del minore.
Da questo humus, le energie -di un bambino prima, di un adolescente poi- rischiano di non avere strumenti per essere coltivate, sviluppate, finalizzate per la propria crescita e, conseguentemente, per un apporto costruttivo nella società.
Sempre più sovente, piuttosto, seguono traiettorie involute: isolamento; disordini nella sfera cognitiva, alimentare, relazionale; bullismo…
Quell’energia che fa andare ciascuno di noi fuori dal guscio e verso l’altro, quella carica innata di “aggressività”, degenera. E si pensa che si possa arginare imparando a “difendersi”. Magari imparando a picchiare.
Ma il bambino è lì, che ci dice che ciascuno di noi, nel suo stato originale, ritiene completamente assurda una situazione di attacco. Così assurda da, al limite, subirla senza ragionevolmente comprenderla.
E’ ovvio che, soprattutto dalla preadolescenza in poi, è necessaria una corretta interpretazione valoriale della responsabilità dell’uso del proprio corpo anche in situazioni di conflittualità fisica tra pari (le angherie dei coetanei, il discredito per la forma fisica dell’elemento più debole del gruppo,…). In questo senso una “difesa personale” della propria unicità, delle proprie idee e del proprio “io”, è un’attività di formazione necessaria.
Diamo ordine, diamo regole. Diamo soprattutto presenza, attenzione e affetto a piccoli uomini e donne che ne hanno, come tutti, un enorme bisogno.
Ma per il bambino più piccolo, diciamo quello nella fascia cinque-nove anni, si tratta di volgere al positivo, ovvero di mettere alla luce della pulizia di questi piccoli cuori tutto ciò che gli strumenti del programma tecnico possono dare a rinforzo di una visione pulita e vera.
Servirebbe anche a noi adulti, che ormai siamo così “puliti” da sbuffare se vediamo dall’altra parte della strada una persona che non vogliamo incontrare. Servirebbe davvero tanto poterci specchiare nelle reazioni istintive dei bambini.
Con ogni probabilità ci renderemmo conto che l’impostazione dei nostri allenamenti e dei nostri “perché” dovrebbe essere in modo preponderante cestinata e ridiscussa. Chissà, magari se avessimo quel coraggio, ne verrebbe in cambio anche finalmente quella forma “perfetta” che ossessiona la nostra mente e solletica il nostro ego.
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