Il tema della difesa personale è molto vasto. Per alcuni è l’unico argomento che conta. Per altri è un tabù. Per altri ancora è quasi sacrilego accostarlo alla pratica del Budo. Siccome si sente, si dice e si fa un po’ di tutto, proviamo a fare un punto sulla base di quanto abbiamo avuto modo di sperimentare in questi ultimi anni.
Siamo due persone che studiano ed insegnano Aikido ad adulti, bambini ed adolescenti. Una disciplina che origina dal concetto espresso dal fondatore, Morihei Ueshiba: “la più grande vittoria è quella su se stessi“. Un percorso che, attraverso lo studio approfondito delle tecniche marziali, fondamentalmente punta ad un progressivo superamento di quella prospettiva duale in cui siamo immersi, soprattutto nelle situazioni conflittuali.
Allo stesso tempo siamo persone che hanno avuto un’esperienza diretta -nel volontariato prima, nella professione poi- degli effetti di un mondo che ragiona “ancora” secondo prospettive duali. E così si cerca -per esempio- di bilanciare l’iniquità dell’indigenza con una Caritas; si prova a contrastare il disagio giovanile con proposte formative più o meno articolate; si assiste un cliente durante una situazione conflittuale con risvolti giuridici ed economici perché sia ripristinato un livello accettabile di coesistenza tra le parti e nella società.
Qualche anno fa, pochissimo tempo dopo la nostra cintura nera, siamo stati coinvolti nel progetto “Nonpiùindifesa” del dott. Fulvio Rossi. All’interno di una iniziativa organizzata presso la Palestra del Tribunale di Torino e destinata ad un solo pubblico femminile, il nostro ruolo era supportare i tecnici che si alternavano all’insegnamento. Varie vicissitudini, tra cui la pandemia, hanno modificato sede e contenuto didiattico dei corsi. Tuttavia è stato per noi un impatto con un mondo sommerso, vasto e problematico.
Se abbiamo imparato qualcosa negli anni di volontariato è che alcune situazioni critiche, come la povertà, i maltrattamenti e la violenza domestica, sono molto difficili da far emergere e quindi da aiutare. Un groviglio emotivo, economico, affettivo e fisico rende complesso raggiungere chi si trova in stato di necessità.
Certamente, pur cercando di vivere, praticandola, una disciplina che allena e sviluppa la verità che in fondo…non c’è niente da difendere, abbiamo potuto vedere quante persone -e non solo di sesso femminile, per quanto prevalente- sentano in modo vivido il problema della difesa.
Siamo entrati quindi gradualmente nell’orbita della tematica della prevenzione alla violenza (privata o di genere) e ci siamo resi conto di quanto il tema “difesa” sia trasversale in tutti i contesti della vita sociale.
Siamo entrati in contatto con realtà locali e nazionali che nel terzo settore e nell’educazione cercano di fornire strumenti per contrastare sul nascere varie forme di violenza, assistendo la ricostruzione di chi ne è stato già sporcato. Da quelle aberranti sui minori alle più viscide forme di violenza economica. Dallo strisciante fenomeno dell’isolamento scolastico e del bullismo ai centri antiviolenza e di supporto all’integrazione dei migranti.
Così, quello che per professione spesso rimaneva l’espressione di una progettualità fatta ad alto livello (e pertanto asettica) con organismi istituzionali nazionali ed europei operanti nel settore della Difesa, si è palesato nella sua realtà locale. E questo richiede una risposta.
Per noi è stato naturale quindi entrare nel percorso formativo per i tecnici della FIJLKAM che vogliano diventare insegnanti di metodi di difesa personale (MGA: Metodo Globale Autodifesa).
In questi anni la formazione ha aggregato tecnici di tutte le discipline marziali e di lotta rappresentate dalla Federazione. Abbiamo quindi beneficiato di uno scambio con altri tecnici, tra cui atleti in attività a livello europeo e olimpionici -e già questo tipo di pratica varrebbe il prezzo del biglietto.
La formazione è stata, tecnicamente parlando, affidata al maggiore rappresentante italiano dell’Hontai Yoshin Ryu, una forma di Ju Jutsu tradizionale, il M. Luigi De Falco. Con lui abbiamo lavorato non solo sui principi ma su come relazionarsi con un soggetto totalmente non collaborativo, fino ad immobilizzarlo senza diventarne, a nostra volta, aggressori.
All’aspetto fisico si è abbinata la formazione in campo tecnico giuridico con gli interventi del dott. Rossi, che ha illustrato ampie casistiche vissute nella sua esperienza di magistrato, e della dott.ssa Bellone, psicologa.
Che dire?
Ogni didattica è situazionale, come dalla situazione reale dipende l’esito di una eventuale aggressione.
E’ evidente che la realtà operativa che vive uno specialista delle Forze dell’Ordine, è differente dal bullismo patito da un adolescente.
Chi ha bisogno di che cosa?
Può il Metodo Globale Autodifesa essere una risposta per le esigenze di tutti?
Cerchiamo di identificare alcuni profili:
- Il professionista della difesa. La formazione militare incorpora anche una buona capacità di contenere un’aggressione fisica. Come e più di ogni altra persona, il militare, il carabiniere, l’agente di polizia, ha bisogno di strumenti formativi che lo aiutino a ridurre al minimo la necessità di intervenire -con o senza l’ausilio delle armi. La formazione legata agli aspetti giuridici e psicologici è sicuramente fondamentale, come è fondamentale l’allenamento a rispondere in modo conservativo (non duale?) a stress improvvisi. E’ possibile fornire a queste persone una formazione professionale? Sì, grazie a una interdisciplinarietà con altre aree, che vanno a potenziare un addestramento militare che rimane una priorità e che non è l’ambito specifico del MGA.
- Il professionista della sicurezza e dei servizi di emergenza (per intenderci, dall’operatore a bordo delle ambulanze al buttafuori alla vigilanza). Grosso modo vale quanto detto nel punto precedente, con la differenza non nulla della limitazione dell’utilizzo del porto d’armi e quindi con la necessità di espandere al massimo la capacità di lettura di una situazione per tutelare i presenti e garantire la prestazione del servizio in sicurezza. Questo necessita una formazione adeguata sotto il profilo delle responsabilità giuridiche nell’esercizio di una funzione, sia essa pubblica o privata.
- Chi è più esposto alla violenza di genere. E’ vero che le evidenze statistiche dicono che i fenomeni di violenza hanno come bersaglio maggioritario l’universo femminile. Ma sono sempre più frequenti i casi di aggressione a parti invertite, soprattutto nelle coppie in corso di separazione. E sono in aumento reati contro la persona scatenati dalla non accettazione dell’identità di genere dell’aggredito, specie nelle fasce giovanili. Cresce lo stalking e il mobbing. Questo campione di utenti è quello a cui parla il 99% del marketing dei corsi di difesa personale. Ed è il campo in cui un approccio approssimativo può portare a problemi enormi. In particolare il rischio è di invertire causa ed effetto e accontentarsi di lavorare su tecnicismi da combattimento che inducono a false sicurezze. Atteggiamenti cioè che fungono da detonatore per episodi di aggressione ancora più gravi, con la possibilità concreta di dover rispondere penalmente per lesioni procurate all’aggressore. Così, se da un lato è opportuno avviare queste persone verso un utilizzo più consapevole del corpo e della prossemica, dall’altro è fondamentale lavorare su un quadro di rafforzamento della conoscenza dei propri diritti e di accompagnamento nell’elaborazione psicologica della propria condizione. In questa prospettiva abbiamo negli anni collaborato a diversi progetti. Il Comune di Torino supporta attivamente queste iniziative, dando piccoli ma significativi contributi, grazie ai quali hanno preso forma i progetti DEFCON e CON3, che hanno visto la partecipazione diretta anche del nostro Dojo, l’Hara Kai. Collaborare con vari soggetti del terzo settore fa comprendere con drammatica forza la solitudine e l’isolamento in cui versano molte persone da un lato e, dall’altro, fa fare esperienza di una crescente sensibilità della comunità civile che lascia ben sperare per il futuro. Per tutte queste persone, il percorso di MGA è sicuramente un ottimo strumento di lavoro integrato per far scaturire nuovi livelli di consapevolezza e di ricostruzione della persona.
- L’adolescente. L’adolescente è certamente un soggetto che vive una fase estremamente delicata ed esposta a fragilità di molti tipi. Dall’instabilità dell’ambiente domestico alla non ancora completa maturazione affettiva e culturale; dalla difficoltà di identificare un proprio ruolo sociale ad una crescente sensazione di isolamento che gli anni della pandemia hanno generato. In questa prospettiva, crescono episodi di bullismo e cyberbullismo. Ed è in questo senso che un percorso che educa ad un contatto conservativo può aiutare a ridefinire la mappa valoriale e dei diritti di un adolescente, abbattendo i muri di gomma di paure e pregiudizi. Educando inoltre ad un rispetto vissuto a livello fisico, emotivo e verbale. Forzando l’uscita dal virtuale e favorendo il confronto nel dominio fisico.
E dal punto di vista di un praticante di Arti Marziali, tutto ciò serve o no?
Possiamo dire che uno degli equivoci principali legati alla difesa personale risieda nella convizione -o quantomeno nell’abitudine- che la maestria in una disciplina marziale possa automaticamente offrire uno strumento didattico e pratico utile per prevenire un episodio di violenza o condurlo fino ad una sua soluzione non cruenta.
Questo è un errore di prospettiva enorme. Ne abbiamo fatto tutti esperienza durante i corsi. Quello che in ogni singola verticalità di pratica funziona, in un contesto operativo è sottoposto a molte più variabili. Discipline che hanno una forte enfasi sportiva potrebbero confondere il combattimento da gara col comportamento da tenere in una situazione non inquadrata da regolamenti. Altre discipline come il “nostro” Aikido o il Ju Jutsu -ma anche Lotta- si fondano su forti competenze di annullamento di una minaccia attraverso l’immobilizzazione se non la rottura della catena articolare. Tutto questo senza però mai aver potuto sperimentare quella dannata parola che è il demone di molti, dentro e fuori dal dojo, ovvero l’efficacia continuativa nel tempo. Servirebbero troppi ortopedici e troppi penalisti per arrivare ad una statistica affidabile e aggiornata rispetto alle cronache del medio evo giapponese.
Resta dunque sul tema “difesa”, e forse è un bene, una zona scoperta. Che nessuna Arte Marziale riesce a presidiare da sola. E a ben vedere anche i reparti di élite sono sempre in cerca di un miglioramento delle loro metodologie di risposta ad una situazione conflittuale.
Nella prospettiva della pratica dell’Aikido questo è molto interessante: attacchi non convenzionali forzano la comprensione dei principi da un lato e soprattutto irrobustiscono i “perché” che ci sono dietro la finalizzazione dall’altro.
I “perché” che emergono fanno anche apprezzare le finalità dei metodi didattici cui siamo abituati. A queste condizioni, se anche non valesse tutto quanto detto fin qui; se anche non ci fosse un coinvolgimento attivo nella formazione di un’utenza ampia, lo studio di un metodo di difesa sotto la guida di tecnici esperti e intelligenti ha dei risvolti benefici per il praticante.
Concludendo: se è chiaro che cosa abbia da dare e da dire il MGA alla società, che cosa può offrire l’Aikido al MGA? Là dove altre discipline da combattimento sono specialiste di tempi di ingresso, calci, pugni, proiezioni?
Assieme al Ju Jutsu l’Aikido offre una metodologia didattica ricca per l’apprendimento dei principi di immobilizzazione o condizionamento articolare. Ma non è soltanto una questione di contributo tecnico. Tolti i casi limite -che pure esistono, che pure richiedono un supporto fatto anche di alte competenze di reazione ad un’aggressione fisica, numericamente la stragrande maggioranza delle persone passa l’intera esistenza ad avere paura di cose che non succedono. Oppure, che se succedono, non minacciano l’integrità psicofisica in modo definitivo o non succedono secondo il film mentale che si erano fatte.
Ecco, l’Aikido dal nostro punto di vista, potrebbe essere un buon alleato per tutti per comprendere. attraverso le tecniche, i perché che generano il conflitto. Potrebbe portare a una cognizione maggiore rispetto all’uso della forza, rendendo più chiaro il confine tra autoconservazione e prevaricazione. Potrebbe, in definitiva, contribuire a creare una parte di società più consapevole e per questo coesa. Non nella negazione violenta delle reciproche individualità ma capace di relazione grazie ad esse ed alle reciproche interazioni, anche quelle conflittuali.
Il traguardo della “grande vittoria su se stessi” forse così, può essere messo a disposizione di tutti e non solo degli addetti ai lavori.
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