Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni; e la nostra piccola vita è circondata da un sonno (William Shakespeare, La tempesta, IV atto)
La letteratura e la poesia ci hanno regalato pagine stupende. La capacità di un poeta di rappresentare una realtà e un concetto attraverso la parola diventa arte quando il lettore quasi percepisce fisicamente quella frase. Di che materia sono fatti i sogni? Chi ha mai visto fisicamente un sogno?
Chi si è mai “illuminato di immenso”, come nella Mattina di Ungaretti? Eppure ognuno di noi “sente”, “vede” e “tocca” il velluto o la cartavetro dei propri sogni. Ognuno di noi, almeno una volta nella vita, si è “illuminato” di fronte a qualcosa.
La sinestesia è appunto la capacità di accostare e di ibridare due percezioni sensoriali nettamente distinte per fonderle in un livello nuovo di comunicazione. Nella neurologia è quel fenomeno sensoriale per cui, in conseguenza di uno stimolo chiaro di un senso, si ha una altrettanto chiara risposta da un altro senso. L’ “urlo nero” di Salvatore Quasimodo ne Alle fronde dei salici è una perfetta rappresentazione della sinestesia, tanto a livello artistico quanto fisico.
L’Aikido si propone come una disciplina che studia il superamento di una visione duale. La coppia formata da tori e uke e il loro continuo scambio di ruoli di intenzione e ricezione crea una dimensione in cui i margini si sfumano ed emerge gradualmente una prospettiva nuova. Nella chiarezza dei ruoli e delle responsabilità, germina il “noi”.
Su questa caratteristica -che è comune ad ogni disciplina ma è maggiormente marcata nell’Aikido- c’è un rischio di fraintendimento.
Da un lato esiste una seria possibilità di automanipolazione: il superamento della dualità non diluisce, piuttosto raffina la verità. Quello che, seppur con toni sorridenti e amichevoli, pratichiamo sul tatami richiede di essere preso maledettamente sul serio. Le linee di attacco o sono chiare o non sono. La centralità, il radicamento, lo squilibrio,…
Nessun principio, quando assente, può essere sostituito dal nostro desiderio che ci sia. O c’è nella realtà o non c’è, anche se nella nostra testa vorremmo che ci fosse. E così spesso va in onda un pacifismo di facciata. Un minestrone in cui c’è tutto e il contrario di tutto e proprio per questo non ha gusto. Il pacifismo e il non ledere nessuno sono cose buone. Meno buone se sono scorciatoie usate per togliersi dall’imbarazzo di vivere la fatica della chiarezza e dell’accettazione del limite che essa mette in luce.
Dall’altro il superamento della dualità è una realtà esperienziale. Per quanto sia intuibile a livello cognitivo è solo l’esperienza diretta che può restituirne la sensazione e la veridicità. Vista da fuori, la pratica dell’Aikido improntata alla ricerca della non dualità fa inarcare parecchie sopracciglia. Anche dentro la cerchia di chi pratica sport da combattimento.
Ed è qui che sorge la sinestesia.
Ci è capitato molte volte, soprattutto in questi ultimi anni, di entrare in contatto con quelli che possiamo definire “budoscettici” e far “sentire” loro l’esperienza di qualche principio tipico dell’Aikido, in connessione col loro corpo, con la loro postura, con la loro tecnica.
Di solito lo scetticismo evapora e si trasforma in un’espressione abbastanza simile a quella di Checco Zalone quando scopre che si può stare in coda al semaforo senza suonare il clacson -e di lì a poco il traffico si dissolve.
Che cosa succede? Succede che nell’Aikido ci si dà un tempo incredibilmente lungo per rimanere a contatto tra due persone, tra due sistemi psicofisici che viaggiano nel mondo contenuti nei limiti dei loro corpi.
In questa finestra temporale inizia l’ibridazione. A livello geometrico e fisico due centri convergono verso un terzo centro intorno al quale si risolve l’azione, modificando l’equilibrio e la struttura di uno dei due.
A livello pressorio e ormonale, la respirazione, la variazione della posizione, l’applicazione e l’intensità dell’energia, modificano in continuazione i parametri della coppia durante la tecnica, fatalmente abbassando le maschere e le barriere che consapevolmente o meno ognuno di noi porta addosso.
Nel contatto, e col tempo, si iniziano a percepire gli stati emotivi ed è in questa fase che la reciproca contaminazione porta la coppia a un livello di reciproca comprensione che non è verbale, non è tecnica ma trascende i livelli della forma per arrivare in una dimensione in cui non è poi così chiaro -né importante- chi attacca o chi difende.
I nostri attacchi, così come le nostre tecniche, si aprono alla sinestesia più totale. Chi di noi non ha mai scagliato uno “tsuki al miele”? Chi non ha mai ricevuto una leva fatta di fuoco? Ecco, il senso è quello.
Parafrasando Shakespeare, dunque, il nostro Aikido è fatto della materia di cui sono fatti gli elementi più intimi che ci costituiscono e sta a noi scoprirne la natura per capire se sia il caso di cambiarla o arricchirla.
Certo, rimane l’obiettivo di superare definitivamente una latente dualità. Crediamo che sia un obiettivo possibile, che richiede di saperci illuminare di immenso ogni volta che entriamo in contatto con un altro noi.
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