Stamattina la sveglia non ha suonato.
Infatti poco dopo le quattro eravamo già svegli. Sarà l’emozione, sarà che il jet lag si fa ancora sentire ma… Eccoci qui a prepararci alle prime luci dell’alba per andare all’Hombu Dojo.
Il quartier generale dell’Aikikai è un piccolo edificio in una zona residenziale di Shinjuku. Arriviamo alle 5.30, è ancora chiuso ma ci sono già due signori di una certa età che aspettano l’apertura.
Salutiamo, scambiamo qualche parola, ci offrono delle caramelle. Entriamo in punta di piedi in un gruppo di pratica che percepiamo molto vasto e di solidissima esperienza.
Intorno alle 5.50 il pronipote di O’Sensei apre, sbrighiamo le formalità e andiamo agli spogliatoi.
Piccoli, puliti, spartani. Ci sono gli armadietti e una singola sedia, che serve a un praticante molto anziano che ha una cintura talmente consumata da avere soltanto qualche filo scuro sopra il cotone chiaro.
Alle 6 siamo sul tatami, fa già un caldo opprimente ma le estati degli ultimi anni a Torino ci hanno abituati ad allenamenti oltre il limite del sudore.
Il clima è molto cordiale. Molti senpai ci chiedono in inglese da dove veniamo. Quando rispondiamo loro nella loro lingua, i loro visi si distendono in larghi sorrisi e la cordialità diventa un’accoglienza sincera.
Sul tatami si chiacchiera, si sorride, come in un Dojo qualsiasi, con quel pizzico di cameratismo che alle sei di mattina fa anche piacere.
Dieci minuti prima dell’arrivo del Doshu, il gruppo si compatta, scende un silenzio denso di concentrazione e siamo già in fila.
Siamo una settantina, su un tatami di 15 metri per 14.
Arriva il nipote di O’Sensei e si inizia.
Moriteru Ueshiba si mostra da subito una persona attenta e affabile. Il ritmo è alto, le tecniche sono mostrate due volte per lato e si parte subito.
Il Doshu gira per il tatami e interrompe la pratica delle coppie alle quali vuol sottolineare alcuni aspetti.
Le tecniche sono una progressione molto interessante su kata dori menuchi e, caldo a parte, reggiamo mentalmente e fisicamente.
Finalmente, alla fine dell’allenamento, il Doshu si avvicina e, con la cortesia di un perfetto padrone di casa, ci chiede chi siamo, da dove veniamo, dove pratichiamo, quanto staremo a Tokyo…
Così prende per noi forma compiuta uno dei motivi per cui progettavamo da tempo questo viaggio.
Sappiamo che la comunicazione verbale è solo il 7% della comunicazione stessa. Se siamo riusciti a praticare in serenità di fronte al Doshu e ai suoi allievi anziani, lo dobbiamo a chi ci ha insegnato a comunicare attraverso l’Aikido. Siamo molto grati al nostro Maestro per questo, così come ai nostri compagni dell’Hara Kai, con i quali esercitiamo questo linguaggio.
Contemporaneamente, poter dialogare in Giapponese, seppure con i nostri limiti, consente un’interazione a un livello più profondo, ottenendo un rispetto, se non una familiarità con le persone che stiamo incontrando in questa esperienza.
Siamo quindi infinitamente grati all’Associazione Sakura di Torino, che con competenza e pazienza ci ha fornito gli strumenti per capire ed essere capiti.
Grazie a tutto questo, a fine dell’allenamento il Doshu ci ha onorato di una foto ricordo con lui.
Un dono imprevisto. Ma l’Aikido è, principalmente, l’Arte di stupire e sapersi stupire.