芸者, geisha, è un termine giapponese altamente evocativo e universalmente noto.
Letteralmente vuol dire “persona (sha) di arte (gei)”e diversi secoli fa designava unicamente artisti di sesso maschile.
Generazioni di iconografie frettolose, soprattutto distorte dalla prospettiva occidentale, hanno fatto coincidere la figura della geisha -nel frattempo divenuta un’attività femminile- con quella di una prostituta.
Prostituire e svendere l’arte, del resto, non è così raro. Anzi, far scivolare il proprio talento nel vortice dell’opportunismo è una delle tentazioni a cui siamo tutti soggetti.
Pensiamoci: quante penne capaci di raccontare la realtà diventano giornalisti al soldo dei propri editori?
Quanti musicisti, per sopravvivere, fanno tacere il proprio talento per riprodurre scalette di scarso valore ma di facile presa?
L’elenco potrebbe essere lungo e rende bene l’idea. Soprattutto spiega perché pensando alle geishe, il cui compito è intrattenere i clienti suonando, danzando, cantando, declamando poesie e conversando, si tenda a trascinarne l’attività verso il degrado della prostituzione.
Se gli occhi sono torbidi, sono capaci di vedere lo sporco dove non c’è e di svilire l’arte.
È vero che la storia delle geishe, che ora va rarefacendosi, è solitamente la storia di ragazze senza troppi mezzi che cercano un’affermazione sociale attraverso un percorso che prevede nessuno spazio di libertà e una formazione rigida nelle arti tradizionali.
È altrettanto vero che, nel passato, la proprietaria della casa in cui le geishe vivevano, ne fissava il riscatto, che uomini facoltosi versavano raramente per sposarle e spesso per diventare loro amanti, in una società di matrimoni combinati.
Tuttavia, la geisha è e rimane un fossile vivente, una fotografia vivente delle arti e dei modi dei secoli passati.
E noi, che guardiamo questo fluire nel tempo, non possiamo evitare di pensare che non siamo aikidogeisha (o judogeisha o karategeisha.. ). Mettiamo quel suffisso ka che dovrebbe essere riservato a chi è davvero esperto in una disciplina.
Ci definiamo artisti marziali. Ma lo siamo? Riverbera davvero in noi quella dedizione totale al miglioramento, alla forma, al comprendere, fare propria, trasformare e trasmettere la tradizione?
O, abituati a svendere tutto, svendiamo anche noi?
Nello specchio delle geishe si riflette il volto di questo Paese e nelle forme di ieri si scorgono le traiettorie del nostro futuro.