Comunque lo si voglia giudicare, il recente film Barbie è una clamorosa operazione di marketing che offre diversi spunti di riflessione e di discussione.
In particolare, il personaggio di Ken, interpretato da Ryan Gosling, viene descritto come un sempliciotto, che esiste solo in funzione del binomio che crea con Barbie. Gradualmente, prendendo coscienza che nel mondo reale non riuscirebbe a trovare né occupazione né identità, si rende conto che essere sé stessi è ciò che è sufficiente per vivere una vita degna, al di fuori e oltre le aspettative e gli stereotipi.
I am Kenough, appunto. Sono Ken e tanto basta.
Ora, un Aikidoka medio non è abituato in genere a giocare con le Barbie. Generalmente negli ambienti delle Arti Marziali la presenza femminile, salvo rare ma crescenti eccezioni, non è elevata.
Pertanto, i tatami spesso sono affollati di Ken che utilizzano il (bok)ken, in cerca di una qualche identità.
Un aspetto che il film citato mette bene in rilievo è la perfetta, monotona, plasticosa ripetitività della vita di Barbie e Ken nel loro mondo.
Questo ci fa venire in mente il programma tecnico. Prendiamo, per esempio, il programma di dell'(aiki)ken. (Guarda caso).
Sette suburi
Happo giri
Quattro armonizzazioni
Cinque kumi tachi (con il ki musubi no tachi come bonus track)
Sette ken tai jo
Svariati tachi dori (diciamo una ventina di base).
Visto così, sembra un elenco piuttosto breve. Se pensiamo poi che in molte realtà si arriva all’esame di cintura nera limitandosi ai sette suburi; che in molte realtà (per esempio all’Hombu Dojo) per lo shodan viene richiesto esclusivamente qualche tachi dori; che in tante altre realtà lo studio delle armi non c’è o quanto c’è è la risultante di ibridazioni tra jodo e kenjutsu….
Ecco, se pensiamo a tutto ciò, lo studio delle armi e in particolare del bokken sembrerebbe la ripetizione spasmodica di quattro cose in croce.
Man mano che si approfondisce lo studio, si può iniziare a rendere il catalogo molto più frattale: dentro happo giri si possono inserire tutti i suburi. Nelle armonizzazioni, nei kumi tachi e nei ken tai jo inserire un numero elevatissimo di variazioni e/o di disarmi.
E ancora, si possono raccordare i kumi tachi, studiare i principi applicativi (riai), andare a studiare la filologia delle forme antiche di ken tai jo…
Un lavoro molto ramificato, in cui l’ampia catalogazione rende quasi impossibile e certamente inutile la catalogazione mnemonica ed esige piuttosto la formazione costante delle basi e la chiara comprensione dei principi su cui costruire modularmente l’approfondimento.
Ma anche così, a che condizioni conoscere e praticare il programma tecnico, in questo caso di bokken, è sufficiente? E’ “kenough”?
Che cosa costruiamo? Un dorato mondo di plastica marziale, fatto di una bella collezione di forme, più o meno ampia?
Ci servono a qualcosa? E a che cosa? A migliorare la forma e l’esecuzione delle tecniche a mani nude? A rivedere, nei movimenti del corpo, gli stessi movimenti di quando si agita un bokken? A far colpo su inesistenti Barbie a bordo tatami?
E quando anche si arrivi a questo livello di consapevolezza…A che cosa serve?
C’è qualcosa di molto formativo in tutte le discipline: la ripetizione del gesto. Non abbiamo mai conosciuto qualcuno capace di andare a fondo in qualche settore, rimanendo fedele alle sue scelte, che abbia deciso a un certo punto di privarsi della ripetizione quotidiana di gesti, abitudini e routine ritenute essenziali.
Tutte queste persone, piuttosto, hanno avuto l’umiltà di rimanere aggrappate costantemente a pratiche molto semplici -e per questo motivo, sono diventate capaci di realizzare cose molto complesse. Soprattutto sono state persone che hanno utilizzato la costanza per trasformarsi giorno dopo giorno in versioni sempre migliori di se stesse, lasciando una scia pulita negli ambienti che hanno frequentato.
Riparte un anno di pratica. L’augurio è di trovare in quello che si fa ciò che serve per poter arrivare a dire, con soddisfazione, che quel tanto o poco che facciamo, rappresenta sempre il nostro massimo di oggi e il punto di partenza per domani.
Per poter arrivare a dire che noi siamo “semplicemente” noi. E tanto basta, per oggi.
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