John Stevens, ne “L’Arte della Pace”, raccoglie frasi dette, scritte da Morihei Ueshiba o anche semplicemente attribuite a O’Sensei.
Tra le tante frasi, una delle più suggestive è proprio quella che dà il titolo a questo post. Che cosa può voler significare che l’Aikido consiste nel “colmare ciò che manca“?
Si possono dare molte interpretazioni. A noi piace pensare che una disciplina che si fonda sulla connessione tra due persone e sul prendere l’equilibrio l’uno dell’altro gestendo i pieni e i vuoti, possa mettere in evidenza ben altri pieni e vuoti. E aiutare a riequilibrarli.
Se, nell’immaginario, “colmare ciò che manca”, rievoca il concetto di riempire un vuoto, effettivamente possiamo dire che la pratica di una disciplina marziale rieduca l’intero sistema psicofisico a rendersi conto dei pieni e dei vuoti.
Ci sono dimensioni della nostra esistenza che sono troppo piene e devono essere svuotate per una vita più equilibrata (troppi pensieri, troppi impegni mal combinati, troppe parole, troppe maschere sociali).
E ci sono aree del nostro essere che sono troppo poco presidiate. O del tutto non abitate da noi, dall’alimentazione alla condizione fisica; dalla fatica di costruire di una rete di relazioni sane e non tossiche alla pigrizia nel coltivare nuovi interessi e stimoli.
Ecco, sotto questo punto di vista, saper riconoscere e gestire i pieni e i vuoti, può modificare il nostro equilibrio. Esattamente come nella pratica tecnica.
Si tratta dunque di esprimere un equilibrio stabile ma che sappia anche al contempo di mantenere la sua stabilità nel fluire di una società veloce. E per fare questo è necessario che l’umile lavoro quotidiano sul tatami possa essere condotto in un ambiente sereno e pulito. In una parola: serio.
All’Aikido può venire a mancare la serietà, per esempio, non tanto quando si perde l’ingessatura del formalismo a favore di un clima più disteso -e perché no, dove si riesce a sorridere. Quanto piuttosto quando lo studio tecnico si perde nelle spirali frattali delle infinite combinazioni possibili, senza che questo serva ad un avanzamento del praticante, che non sia solo tecnico.
O, viceversa, quando lo studio tecnico si arresta e il praticante si perde nelle spirali frattali delle infinite parole, auliche quanto spesso incomprensibili ai più, dei percorsi sottili. Talmente sottili da non essere nemmeno più percorribili.
O, ancora, quando lo studio tecnico pretende di avere il sopravvento su quello non tecnico, negando dimensioni che non siano esclusivamente legate alla geometria fisica del combattimento.
Nell’Aikido, spesso, manca l’umiltà di riconoscere che la tradizione è un dono da preservare perché è il trampolino di lancio per poter azzardare nuove prospettive. Se il mercato dell’automobile fosse guidato solo dal rispetto della tradizione, le nostre strade sarebbero piene del modello T della Ford, senza possibilità di alcuna novità. Scegliere di andare su un macinino pur avendo a disposizione tutti i ritrovati possibili per la mobilità è un peccato. Si può andare da A a B in molti modi.
La ripetizione parossistica di esercizi e forme contenute nei programmi tecnici viene spesso vista come un punto di arrivo -e per certi versi lo è- ma rischia di diventare una tazza troppo piena che non potrà contenere mai altro.
Pare quindi che all’Aikido manchi il realismo di riconoscere che il pacchetto minimo, il famoso tragitto da A a B, può e deve essere trasmesso a tutti coloro che vi si avvicinano: grandi e piccoli, dotati e meno dotati. Da questo punto di vista, ci sta anche che a molti interessi arrivare da A a B e rimanerci, in una routine tecnica consolidata. Per fare ciò però all’Aikido spesso manca una chiara consapevolezza che il linguaggio tecnico, declinato con sapienza a seconda del destinatario, serve per generare atleticamente persone con qualche capacità motoria in più al fine di far scaturire in esse il desiderio di essere, allenamento dopo allenamento, persone migliori.
Questo è il tragitto da A a B. E questo spiega perché sia un peccato il fatto che all’Aikido manchi, spesso, la dignità di essere riconosciuto come un’attività alla stregua di tante altre che popolano i luoghi in cui si praticano le Arti Marziali ed altri sport. Siamo i cugini poveri -di parenti comunque poveri, beninteso, ma più blasonati- che fungono spesso da tappabuchi nei palinsensti in cui la precedenza è sempre e comunque data ad altri.
Se all’Aikido quindi restituiamo l’anello mancante in tanti aspetti della società, che è la persona; se mettiamo l’essere umano al centro, allora diventerà più chiaro come usare il tesoro della tradizione per mettere a disposizione di ciascuno ciò che ciascuno necessita per fare un percorso di miglioramento. Le forme avranno un senso perché faranno da cornice a persone in carne ed ossa e non viceversa, promuovendo la libertà e la responsabilità ad ogni livello e disvelando, agli occhi di tutti, la bellezza della realtà che brilla dietro ogni movimento, anche il più semplice, quando è fatto illuminato dalla ricerca di senso.
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