Il sovraccarico sensoriale -o iperstimolazione– è uno dei principali problemi della società.
Sarebbe troppo facile e sbrigativo cavarsela con un boomeristico “Iggiovanidoggi sono sempre attaccati allo smartphone“. Non perché non sia vero, ma perché la questione è più complessa.
Tra l’altro, basta vedere quante volte il telefono squilla durante una funzione religiosa in chiesa, dove l’età media è molto molto alta.
Il nostro sistema nervoso è fatto benissimo. A determinati stimoli corrispondono precisi meccanismi, funzionali al nostro benessere. Dissetarsi, mangiare, ascoltare musica, producono un rilascio di dopamina, per esempio.
Quindi il funzionamento è molto semplice: do al mio corpo determinati stimoli e il mio corpo mi restituisce una sensazione di piacere.
Fin qui non c’è nulla di male. Anzi.
Che cosa succede però, se viviamo totalmente immersi in un mare di stimoli?
Che cosa succede se alleniamo il nostro sistema a ricevere in continuazione stimoli?
Disattenzione, poca focalizzazione, nervosismo, inquietudine, incapacità di portare a termine un compito, sono solo alcuni dei problemi che si riscontrano nella società.
Proviamo ad essere sinceri. Quante volte mentre siamo intenti a fare qualcosa di importante (studiare, lavorare o comunque fare qualcosa per realizzare i nostri progetti), ci troviamo a interrompere la nostra attività? Un messaggio, un controllo ai social, uno sguardo ai nostri contenuti multimediali, un’interruzione per andare a fare qualcos’altro?
Detta in un altro modo: quante volte ci capita di fare qualsiasi altra cosa che non sia andare verso quelli che diciamo essere i nostri obiettivi?
Ovviamente questi sintomi si riscontrano anche su un tatami e non riguardano solo i gruppi di bambini. Gli adulti sono anch’essi bambini. Solo un po’ cresciuti. E se sono cresciuti senza strumenti per lavorare su questi aspetti, anche i problemi sono cresciuti.
Se per i bambini si può invocare la loro oggettiva ridotta soglia di attenzione data dall’età e resa ancora più bassa se iperstimolati da immagini e suoni fin da piccolissimi, per gli adulti questa attenuante non è socialmente concessa.
Se ne può uscire?
Ci si può disintossicare da stili di vita in cui ci abituiamo a iniettarci -e iniettare- dosi sempre crescenti di stimoli? Perché sì, vi sveliamo un segreto: più cerchiamo stimoli, più diventeremo insensibili al piacere che ci danno. Ne cercheremo sempre di più, rabbiosamente.
Ecco quindi cinque piccoli modi per riscoprire il piacere che la pratica dell’Aikido (o di un’altra disciplina) può restituirti.
Primo: il Dojo è un luogo off grid
Prendere del tempo per te è qualcosa di molto positivo. Prendere del tempo per te e condividerlo con altri in un luogo in cui lo smartphone è spento per tutta la durata dell’allenamento, ancora di più. Si scopre che si può vivere disconnessi dal mondo e che questo alla lunga è piacevole.
Secondo: placare i pensieri
Bambini e adulti che siano, i praticanti di una disciplina all’inizio sperimentano qualcosa di nuovo: quando il corpo è in quiete e si sta con la bocca chiusa, ci si sorprende per l’enorme flusso di pensieri che occupa la mente. Gradualmente, muovendo il corpo e praticando con una buona intensità, si scopre che durante la pratica la nostra mente non “pensava a nulla”. O meglio, rifletteva la quiete del nostro sistema che era occupato a svolgere tecniche e movimenti. Si scopre che ricevere meno stimoli esterni e aumentare l’attività del proprio sistema è piacevole. Che una mente tranquilla dà benessere.
Terzo: un perimetro chiaro
Le regole di una disciplina marziale aiutano a tracciare un perimetro chiaro, che nella vita di tutti i giorni non è così marcato. Dal saluto al ringraziamento, l’etichetta non è un retaggio formale ma un supporto per dettare tempi e modi nelle relazioni e spostare l’attenzione dal virtuale al reale. Il reale esige sempre perimetri chiari, in cui ritrovarsi. Si riscopre che ogni relazione ha bisogno di regole e tempi e i legami che si creano in un gruppo richiedono tempo ma sono forti e quindi molto piacevoli.
Quarto: un obiettivo preciso
Un principiante all’inizio fa una certa fatica a orientarsi in un contesto nuovo. Un praticante avanzato a un certo punto fa una certa fatica a trovare motivazioni dentro un contesto che conosce da un po’. Stesso problema, prospettive diverse. In entrambi i casi lo studio delle tecniche ed il loro perfezionamento è uno scopo molto chiaro. Il raggiungimento di un livello tecnico stabile è un criterio oggettivo che dà un obiettivo e un criterio di confronto chiaro. Guardarsi indietro e vedere quanta strada si è compiuta è fonte di soddisfazione e di piacere.
Quinto: provare fuori dal Dojo
Il Dojo è un luogo di formazione e allenamento. Allenamento per cosa? Le finalità e le prospettive che animano gli allenamenti devono poi trovare la loro applicazione nella vita di tutti i giorni. La quale non è né meno né più “reale” di quella nel Dojo. E’ la stessa vita, con abiti diversi, con forme di attacco diverse e regole. Allora perché non provare a vivere le situazioni di sempre con la stessa attitudine di pratica al Dojo? Sarà piacevole vedere i piccoli, grandi cambiamenti.
Educare di nuovo il nostro sistema a cercare stimoli piacevoli ma anche utili è la sfida a cui siamo chiamati per migliorare concretamente il nostro mondo.
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