Quanto è bello poter praticare con lo spirito del principiante!
初心, shoshin, è quella condizione magica in cui è tutto nuovo, tutto entusiasmante, tutto da scoprire. Quel momento in cui ti butti a capofitto in quello che fai: studio, relazioni, disciplina, stage. Ti fidi ciecamente di quanto ti viene detto e, se solo potessi, lasceresti tutto per vivere di quella nuova scoperta.
Non hai filtri, semplicemente perché non hai ancora iniziato a riconoscere un perimetro dell’esperienza che stai vivendo.
Lo “spirito del principiante”, permeato di curiosità, è forse la caratteristica più complessa da preservare lungo qualsiasi percorso.
Recentemente abbiamo partecipato ad un evento in cui un ex ammiraglio della marina statunitense sottolineava l’evidenza che “l’esperto è morto“. Ovvero: è la capacità di adattarsi alla situazione, di avere quel mix di creatività, elasticità e competenze che è dato da un buon allenamento e da una curiosità ben coltivata che permette di affrontare le sfide con una buona probabilità di successo.
Vediamo a quali minacce è sottoposto il percorso di una persona che pratica una disciplina marziale.
La prima è di essere finito in un ambiente in cui l’insegnante è un volonteroso pasticcione. Quel tipo di persona che ha un gran cuore e che sacrifica tempo e risorse per mandare avanti un gruppo in cui la proposta didattica è confusa e quella tecnica imprecisa.
Non c’è modo, per chi finisce in un ambiente del genere, di rendersene conto, se non avendo l’opportunità di frequentare altri gruppi, soprattutto nei momenti di stage. Spesso però, il meccanismo di autodifesa scatta: non accettiamo di aver investito tempo e risorse in qualcosa che poi di rivela essere poco costruttivo. Ammettere di aver perso tempo è uno dei motivi per cui l’essere umano preferisce insistere in strade sterili.
La seconda è opposta alla prima: frequentare gli ambienti dei perfetti. O meglio, di quelli che si ritengono tali. Tecniche iperprecise, pratica prestazionale, pochissima empatia, ancor meno capacità o disponibilità di creare legami di gruppo. Ambienti perfetti per comprendere le geometrie della tecnica ma che lasciano tutta la parte non tecnica inesplorata. A volte le persone che frequentano questi gruppi trovano sul loro percorso uno stage in cui viene permesso loro di fare esperienza di poter esprimersi, poter essere libere di non essere soltanto robot. Le reazioni di autodifesa sono sempre in agguato.
La terza è un mix delle precedenti: c’è un buon livello tecnico da un lato e dall’altro si fa attenzione a coltivare i rapporti. Il che sarebbe l’ambiente perfetto che tutti noi cerchiamo: a lavoro, nel tempo libero, nelle nostre passioni…
In questi ambienti può darsi che cresca la gramigna del gurismo e/o della manipolazione (o automanipolazione).
E’ bello fare parte di un gruppo in cui tutto sommato si sta bene. Poi si inizia a passare il messaggio che se vuoi comprendere appieno quanto stai facendo, devi diventare una copia del tuo istruttore. Devi condividere un determinato set di idee. Devi modificare abitudini, diete, esercizi. Devi frequentare determinati eventi…
E’ sempre complesso, per chi insegna, avere chiaro il senso del limite. Nel percorso di una disciplina appare chiaro quanto possa essere utile in modo oggettivo per il praticante; il percorso tuttavia è individuale e siccome riguarda l’intera dimensione umana, bisogna ricordarsi che quella che si fa e si riceve rimane una proposta a cui dare un’adesione personale.
Tutto a un tratto, spesso, succede che quella serie di “devi”, si scontra con le reali inclinazioni personali e lo spirito del principiante, sempre pronto, disponibile e presente a tutti gli allenamenti, eventi e iniziative, lascia inevitabilmente il posto allo spirito del rancoroso disamorato.
Se queste minacce alla purezza dello spirito del praticante sono in qualche modo locali, ovvero riguardano l’ambiente in cui si pratica, un quarto problema emerge a livello sistemico: l’ignoranza.
L’ignoranza, al pari del torto e del riconoscere di aver perso tempo, è qualcosa che pensiamo che riguardi sempre gli altri: è appunto il nostro meccanismo di autodifesa. La buona notizia è che riguarda tutti.
Se guardiamo al mondo delle discipline marziali, assistiamo a un mix inconsapevolmente letale fatto spesso di frasi estrapolate dal contesto, attribuite a questo o quel maestro; di ripetizioni di termini e modi di dire giapponesi; di citazioni più o meno verificate; di una sorta di formulario ottenuto mischiando libri, film, esperienze…
Probabilmente è capitato a tutti, in tanti contesti, di partecipare a eventi e chiedersi da dove fosse uscito il tizio che si è messo a parlare, spiegare, insegnare, dirigere… Capita, semplicemente. Capita soprattutto quando si ha la possibilità di approfondire e scoprire che il modo con cui certe cose sono state trasmesse non è stato completo, preciso, curato.
Succede che a volte si scopra che quello che ci fidavamo fosse oro colato non lo sia. Il nostro spirito da principianti lo dava per scontato, giustamente.
Per loro intrinseca natura, le discipline marziali sono immutabili e frattali. Contemporaneamente.
Chi le ha codificate ha provato a trasmetterne i principi attraverso una serie di forme. Chi è venuto dopo ha cristallizzato le forme attualizzando i principi e così sono nati stili, movimenti, linee di ricerca: il terreno ideale per trovare il proprio spazio dentro la disciplina ma anche una certa confusione.
Una sorta di limbo, di liberi tutti, in cui, come recitava uno slogan della Cepu qualche anno fa, si poteva ambire a “laureare l’esperienza”, anziché la conoscenza reale.
Ma uno studente, un praticante, di che cosa ha bisogno? Di un tecnico che sappia trasferire un metodo per elaborare più conoscenza possibile attraverso l’esperienza del lavoro tecnico sul tatami? O di un insegnante che abbia maturato anni di competenze zigzagando tra esperienze tra loro diversissime?
E in generale, abbiamo più necessità di apprendere l’arte della Pace, cercando di demistificarla da quanto non le appartiene o di appoggiarci alla pur nobile arte della Cepu, che se ben applicata porta chi la pratica ad un diploma?
La risposta determina chi siamo nel percorso che facciamo e di che tipo di insegnante cerchiamo per tutelare quella fiamma che si è accesa quando abbiamo iniziato e che è sempre un peccato perdere per strada.
E se ci capiterà nel nostro percorso di sentire che il nostro spirito di principiante a volte è stato deluso, cerchiamo di ricordare che anche i nostri eroi hanno i loro limiti e che qualsiasi rapporto porta frutti se si accetta l’altro per quello che è, nelle tante cose buone che può dare e negli inevitabili punti meno luminosi che porterà con sé