In una disciplina come l’Aikido, chi decide quali tecniche devono essere contenute in un programma da tramandare e quali no? E su che basi?
Se guardiamo all’Aikido e lo confrontiamo con il Daito Ryu Aikijujutsu, in cui Morihei Ueshiba si è formato prima di iniziare a elaborare quella che è la disciplina che conosciamo, vediamo la presenza di tanti elementi che sono scomparsi, mentre altri sono stati modificati.
Scavando nel Daito Ryu e nella sua millenaria tradizione si può trovare di tutto, dalle tecniche col manganello (jutte jutsu 十手術) ad eseguire le tecniche con una sola mano perché l’altra impegnata da un…ombrello (kasa dori 傘捕)! Si trovano calci, gomitate, pugni, tecniche di strangolamento (shime waza 絞技), utilizzo dei “punti di pressione” (kyusho waza 急所技) e via discorrendo.
Quando ci è capitato di praticare con maestri del Daito Ryu e dello Hontai Yoshin Ryu (una linea molto tradizionale di Ju Jutsu), abbiamo potuto cogliere l’eco della brutalità in cui sono cresciute centinaia di generazioni. Lo scontro deve terminare nel minore tempo possibile, in modo definitivo. In questo caso i waza, l’insieme di azioni intraprese per mezzo di un linguaggio tecnico, hanno come unico orizzonte la conseguenza fisica sulla persona sulla quale sono applicate.
Riteniamo giusto e necessario che un praticante di Aikido, dopo una adeguata formazione fisica e tecnica, possa fare esperienza del confronto di prospettive, recandosi da quei maestri dotati di talento didattico, tecnico e di ragionevolezza che mandano avanti queste linee. Ce ne sono ancora, per fortuna.
L’Aikido è un jutsu (術), un’arte che si è sviluppata con premesse diverse, originata da un linguaggio che consentiva di costruire prospettive devastanti, nello scontro fisico. E’ un frutto di elaborazioni successive all’interno della vita di persone che hanno vissuto cambi epocali. Provate voi a essere depositari di una tradizione millenaria che vi ha resi macchine mortali a mani nude, di fronte a una mitragliatrice. O a una bomba atomica.
Per questo, quando talvolta nei vari Dojo e seminar, quale che sia lo stile, succede che siano ripescati dal baule dei ricordi tecniche arcaiche, pre-Aikido, non si capisce bene a che cosa si assista.
A un virtuosismo del sensei? Ad un tentativo di lussazioni autoinflitte? A voler cercare qualcosa nel passato per evitare di confrontarsi col presente?
I programmi tecnici seguiti dalle principali scuole internazionali presentano grosso modo gli stessi principi, anche se talvolta con prospettive molto diverse. Ne aveva scritto il Maestro Marco Rubatto tempo fa a questo link.
All’interno dei vari stili, esistono modalità di pratica che, per intensità fisica, non sono diverse dal Ju Jutsu tradizionale, quindi l’estromissione di diversi waza dall’insegnamento non è dovuta strettamente alla pur legittima istanza di tutelare l’incolumità fisica dei praticanti.
Il fatto è che nel passaggio da Daito Ryu Aiki Ju Jutsu ad Aikido, non solo è tramontato il Daito Ryu ma soprattutto il jutsu è diventato do (道).
Lo studio dei waza (le 118 tecniche di base dello shoden del Daito Ryu, funzionali ad apprendere le successive tremila…) muta radicalmente lo scopo. Da arsenale militare diventa scatola degli attrezzi per uno scopo più grande. Dalla distruzione dell’avversario si passa alla coltivazione di sé grazie al compagno di pratica.
Questo ovviamente in teoria, perché in una disciplina la differenza la fanno sempre in due: il contenuto della disciplina e la capacità della persona di comprenderlo e declinarlo correttamente.
Diversamente si finisce a fare, per bene che vada, un’operazione che va controcorrente rispetto al fluire del tempo e della Storia. La filologia è importante, se consente di trovare un significato attuale di qualcosa di antico per la mia crescita di adesso. Non della proiezione di me stesso immaginandomi ottocento anni fa con la katana e la prospettiva di vita più bassa di un piccione.
Allo stesso modo bisogna avere il sereno coraggio, nell’insegnamento, di domandarsi se ciò che tramandiamo è un cieco “copia e incolla” di un elenco, di fatto ereditato da un lineage impostato da chi ha esportato dal Giappone l’Aikido. Cosa succede se ci rendiamo conto che per la crescita personale (e di un gruppo, se si è insegnanti) quel determinato waza è fuorviante o, peggio, non comunica più niente?
Aprire il baule dei ricordi deve servire a questo. Sennò la pratica diventa un ritrovarsi come quei tre tizi del famoso spot che, dopo aver portato in salvo l’antico vaso (per metterlo chiuso in una scatola, ma vabbè) bevono e parlano, parlano e bevono e, parlando e bevendo, mimano e ripetono a non finire i gesti del recupero dell’antico…waza.
(E sì, se hai letto fin qui è perché in fondo anche tu eri già grandicello negli anni ’90. Se invece non hai capito il riferimento del titolo allo spot hai il diritto di chiamarci Aikiboomer)
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