Le sette piaghe dell’hakama

Hai letto bene: piaghe e non pieghe.

Sì, perché è facile sognare ad occhi aperti. L’etica orientale è così affascinante e la sua simbologia è così potente che ci convinciamo presto che le sette virtù del Bushido siano a portata di mano.

Del resto, chi è che non desidera vivere in un mondo in cui ci sia più onestà, coraggio, compassione, cortesia, sincerità, onore e lealtà? E chi non ambisce a poter vestire l’hakama? Quel gonnellone che con le sue sette pieghe è lì a simboleggiare che chi la veste è già una cintura nera che in qualche modo non solo si impegna a ricercarle ma ha anche già trovato la via per vivere tali virtù.

Nel racconto dell’esodo del popolo di Israele dalla schiavitù in Egitto, si legge di dieci “piaghe”. Dieci conseguenze inflitte al popolo egiziano in seguito alla negazione della libertà al popolo ebreo.

A quali castighi si condanna, di fatto da solo, una cintura nera?

Prima piaga: la progressiva autodistruzione a livello fisico

Il praticante che non accetta la possibilità di invecchiare e non concede a se stesso la libertà di esplorare altre dimensioni della pratica complementari rispetto a quelle esclusivamente fisiche va incontro inevitabilmente ad un’usura accelerata. La testa pensa di potersi concedere esperienze che, tutto a un tratto, il corpo le nega. Se questo accade nel mezzo di  una proiezione, qualcosa fa “crac”. Se poi  un praticante inizia a pensare che solo perché veste l’hakama allora può permettersi gesti atletici senza allenarsi, diventa un collezionista di “crac”.

Seconda piaga: non sapersi fare da parte, aka, il senpai imbruttito

Proveniamo da una vita passata all’ombra del campanile (che nella nostra parrocchia non c’era ma è comunque un’immagine poetica). Abbiamo conosciuto persone che erano punti di riferimento per i “gruppi giovani” che, diventati “meno giovani”, sono andati a fare servizio altrove. Abbiamo incontrato anche altrettante persone che da teenager sono entrati nel gruppo degli “enti“, poi degli “enta“, poi degli “anta“, standosene sempre lì. Il che non è un problema se il rimanere sempre lì vuol dire supportare la crescita degli altri. Farsi da parte perché altri facciano le proprie esperienze. Perché altri curino aspetti della vita del gruppo; magari (anzi: sicuramente) sbagliando…Ma se ci sono sempre le stesse persone che fanno le stesse cose, gli altri quando potranno crescere?

Terza piaga: “Il grado non mi interessa ma…”

Nella tipica ascesi marziale che trasforma un essere umano nel figlio spirituale di Steven Seagal, non è raro trovare persone che ripetono che la disciplina “è un percorso personale” e che il grado “è irrilevante”, perché quello che conta è “migliorare come persona“. Poi però a un certo punto scatta la fregola e l’esame, col grado che porta, sembra un po’ il becchime che il contadino porta nel pollaio. Ci si buttano tutti addosso. Come l’Unico Anello de “Il Signore degli Anelli”: un dan per domarli, un dan per trovarli, un dan per ghermirli e nel buio incatenarli.

Quarta piaga: la psittacosi

Che poi è la malattia dei pappagalli. Ma mentre i pappagalli, intesi come uccelli, possono essere curati da questa infezione, negli ambienti delle Arti Marziali è facilissimo infettarsi del virus di ripetere tutto senza pensare a ciò che si dice. E questo rende difficile guarire. Vedere un praticante esperto, di qualsiasi disciplina, ripetere pedissequamente movimenti e frasi dei suoi maestri può essere anche commovente. Se poi ripete termini giapponesi mal detti e peggio tradotti; se a sua volta trasmette agli altri quello che lui ha subito perché “si è sempre fatto così”; se, per darsi un tono, durante la pratica esclama parole giapponesi a caso… Presto, chiamate il veterinario marziale! Pappagallo wa ichiban tori desu. E, a proposito di parole a caso: 荷物. Detta durante una proiezione, impressiona il pubblico.

Quinta piaga: la maledizione di Paolone

A un certo punto, succede che l’hakama porta con sé delle scelte. La pratica porta con sé dei cambiamenti e il praticante compie delle scelte sempre più autonome. Tra autonomia e consapevolezza c’è un bel divario, però. Spesso ci si sente troppo superiori rispetto alle proposte fatte, in sede di allenamento o di formazione. E magari è anche così. Ma il non prestarsi più a determinate $T$0*ate

Paolone senpai rifiuta l’esecuzione tecnica proposta da Renato Pozzetto Soke

può degenerare prestissimo in un arroccamento. Abbiamo già visto tutto, capito tutto, sappiamo tutto, siamo più furbi di tutti. Di nuovo: magari è vero ma uno dei pilastri di qualsiasi disciplina è la pazienza. Distruggerla è distruggere le fondamenta del proprio edificio marziale ed è una vera maledizione.

Sesta piaga: un vaghissimo narcisismo

Per esperienza personale, vestire l’hakama fa spuntare di nuovo i capelli là dove c’erano stempiature, scolpisce la tartaruga e rende invincibili. Ma ci sono anche altri vantaggi, a vedere in giro. E’ bello vedere che la progressione nelle discipline marziali porta con sé una crescente autostima. A volte questa va fuori controllo, tra casi (reali) di praticanti che ti parlano di sé in terza persona e altri che iniziano a spiegarti come loro sarebbero in grado di sedare qualsiasi rissa. Nel mentre, soprattutto tra i maschi di mezza età con una condizione fisica generale pari a quella di una Panda con 700.000 km, cresce anche la percezione di essere dei rubacuori infallibili. Dei Dongiovanni so Honbu.

Settima piaga: la privazione dell’autoironia

Il castigo più grande. Non sapere ridere di sé è ciò che ci rende più vicini non al regno animale ma a quello minerale. Più rigidi di un sasso, più impassibili di un paracarro.

“Come osa quello lì, che è solo un kyu, dire queste cose”? Il Doshu esiste ma non sei tu, rilassati.

Concludendo

Qui si cerca di sorridere, pensando ogni tanto a qualcosa di importante. E’ tradizione piegare l’hakama per conservare le pieghe, al termine dell’allenamento. In quel momento, svestendosi, chi la indossa dovrebbe sia ripercorrere l’allenamento, sia ricordare che cosa simboleggiano quelle pieghe.

Crediamo che fermarsi ogni tanto a chiedersi se quei valori non stiano degenerando in disvalori sia importante. Non c’è niente di male nel riconoscere che a volte si esce dal tracciato: fa parte della sperimentazione di quella libertà che, solo da un certo punto in poi riconosciamo vivere a pieno quanto più stiamo in carreggiata.

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