Nel primo dei volumi da lui curati, Morihiro Saito racconta di quando si presentò da Morihei Ueshiba per farsi accettare come suo studente:
Il Sensei mi fissò e chiese: “Perché vuoi imparare l’Aikido?” Quando risposi che mi sarebbe piaciuto imparare se me lo avesse insegnato, mi chiese: “Sai cos’è l’Aikido?” Non potevo assolutamente sapere cosa fosse l’Aikido. Poi il Sensei aggiunse: “Ti insegnerò come servire la società e le persone con quest’arte marziale”.
Non avevo la minima idea che un’arte marziale potesse servire alla società e alle persone. Volevo solo diventare forte. Ora capisco, ma in quel momento non avevo idea di cosa stesse parlando. Quando disse “per il bene della società e delle persone”, mi chiesi come un’arte marziale potesse servire a quello scopo, ma poiché ero ansioso di essere accettato, con riluttanza risposi: “Sì, capisco”. (Morihiro Saito in Takemusu Aikido, Vol. 1 – Storia e Tecniche di Base – Traduzione dal testo inglese)
Sembra di essere lì, nella scena. E un po’ tutti ci siamo sentiti, almeno una volta, come Morihiro Saito. Di fronte a qualcosa e a qualcuno che ci attrae, senza sapere minimamente il perché, senza conoscere nulla di quanto è la reale essenza di quanto faremo.
E, soprattutto, senza la minima idea di come qualcosa che ha a che fare con la marzialità possa in qualche modo servire la società e le persone che la compongono.
Il tutto con buona pace delle pur vere digressioni sul verbo saburau (侍う), da cui deriva samurai (侍) e che in effetti significa servire. Non è curioso che un giapponese purosangue, nato e cresciuto nella campagna ancora impregnata della cultura feudale, non riuscisse a capire come un’arte marziale potesse…servire?
Queste idee ci passavano per la testa quando, pochi giorni fa, abbiamo partecipato all’aggiornamento dei tecnici del Metodo Globale di Autodifesa. Una giornata trascorsa insieme a quasi un centinaio di tecnici e maestri di Judo, Karate, Lotta, Ju Jutsu e, ovviamente, noi in rappresentanza dell’Aikido.
Sul tema dell’autotutela e della difesa personale convergono moltissime istanze, portate da altrettanti soggetti. Ci sono i professionisti della difesa (Forze Armate, Forze dell’Ordine, operatori della sicurezza), i formatori degli operatori della sanità e dei volontari del soccorso, collaboratori dei centri anti-violenza, formatori aziendali, educatori in progetti di contrasto alla violenza di genere, operatori delle scuole impegnati contro il bullismo, insegnanti di corsi al femminile…
Diventa più chiaro, in contesti come questi, come le arti marziali possano servire la società e le persone.
La società ha bisogno di strumenti per rapportarsi alle situazioni conflittuali che sono generate da e generano a loro volta episodi di violenza di mille forme. Solo che questi strumenti non sono in prima battuta metodi di combattimento.
L’applicazione di una tecnica, la risoluzione fisica di un conflitto deve essere evitata ad ogni costo. E, in effetti, come sottolineavano i docenti, le statistiche dicono che fortunatamente pochissimi all’interno della loro vita hanno subito un’aggressione fisica e ancora meno si sono visti puntare un’arma contro.
Lo studio del conflitto secondo la grammatica di una disciplina marziale aiuta a conoscerne la struttura, le motivazioni e le dinamiche e quindi permette di potenziare tantissimo tutti quei meccanismi di prevenzione che evitano l’escalation.
Si potrebbe dire quindi che l’arte marziale serve la società perché serve la persona che la pratica e che ne diffonde il setting attitudinale. Il cambiamento di prospettiva personale è qualcosa che contamina, contagia positivamente l’ambiente circostante e quindi, servire se stessi è il presupposto per servire gli altri.
Poi è ovvio che la risposta ad un uso eccessivo della forza e a un atto criminoso richiede una adeguata preparazione dei professionisti, tanto tecnica quanto attitudinale. E anche questo è un modo per servire la società e le persone.
Ma se la formazione fisica, tecnica e attitudinale che si riceve in un buon corso di una disciplina marziale o di autodifesa fosse usata per rafforzare le capacità di manipolazione psicologica su sé e sugli altri?
Se una certa consuetudine di tirare le tecniche all’esasperazione e di chiuderle come degli ossessi portasse all’abitudine alla coercizione? Non era in fondo questo l’obiettivo del giovane Morihiro? Diventare…più forte?
Allora, in questo caso, l’arte marziale servirebbe alla persona. Esattamente come uno schiavo serviva al suo padrone. Con tutti i problemi del caso che derivano dalla reciproca dipendenza.
Senza l’arte che serve a te, chi sei? E del resto: quanti di noi si identificano nella cintura, nel grado, nella qualifica e nel ruolo che abbiamo o che pensiamo di avere?
E quando, per un motivo o per l’altro, lo schiavo che ti serviva si ribella e, di fronte a una situazione nuova, di fronte a una persona preparata in modo migliore o diverso, di fronte all’avanzare inesorabile dell’età, tutta la tecnica che serviva a te ti abbandona…Che cosa fai?
Se servi “alla” società, finisci col mettere a disposizione dei suoi capricci e delle sue mode tutto ciò che sei e, per come funziona il mondo, non appena ti usa, ti scarta.
Se servi “la” società, ne fai parte come una cellula che cerca sempre di dare il meglio. Non cerchi il tuo tornaconto né la sua approvazione ma la riconosci per quello che è: un organismo vivente fatto di miliardi di cellule in tutto e per tutto identiche a te.
Ed è lì che, insegnata bene e praticata ancora meglio, un’arte marziale può contribuire a servire.
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