Un bambino piccolo dipende in tutto e per tutto dai genitori. Non a caso, nei primi anni, solitamente mamma e papà sono gli eroi dei più piccoli.
Allo stesso tempo, però, intorno ai due anni di vita, tutti noi iniziamo a dire i nostri primi no. Dei no che il più delle volte sono totalmente irragionevoli e che, se assecondati, non fanno il bene del bambino. Eppure, in quel momento, diventiamo tanti piccoli muli, testardi e ottusi.
In qualche modo, impariamo a definirci per opposizione. Percepiamo che esistiamo come individui e avvertiamo che c’è un mondo al di fuori, molto più grande. E iniziano i no.
Sulla strada di una disciplina marziale accade più o meno lo stesso. Da un lato c’è chi, essendo su quella strada da più tempo, conosce e indica che cosa è bene apprendere e come questo debba essere fatto.
Dall’altro c’è chi, essendo sulla medesima strada da meno tempo, oscilla tra una fiducia entusiastica e alcuni poderosi no, che ciclicamente vengono fuori. Non sempre attraverso un agito consapevole o volutamente oppositivo, ma vengono comunque fuori.
Esempi? Quanti ne vogliamo: basta attingere alla propria storia personale, senza scomodare altre persone.
Ukemi? Sì sì, belle, ma io domani se ho la cervicale infiammata non posso lavorare e se non lavoro non pago le bollette. Quindi: bellissime le ukemi, vorrei tanto farle ma…No!
Suwari? Sì, sì, molto giapponese stare in ginocchio. L’insegnante ha ragione a dire che se imparo a muovere il corpo bene stando in ginocchio, poi quando sono in piedi è un gioco da ragazzi. Ma, dico, il Sensei non si rende conto di quanto sono già una reincarnazione di Sokaku Takeda? A che cosa serve massacrarsi tendini, rotule e menischi? Quindi: bellissima questa didattica ma…No!
Armi? Bello lo studio della spada, del bastone e del coltello. Mi commuovo sempre quando guardo “L’ultimo samurai”. L’insegnante mi sprona a partecipare agli allenamenti, anche quelli specifici al parco. Ma, Sensei, non capisci che ho una vita e che due ore in più ogni tanto proprio non posso dedicarle, perché sono un cardiochirurgo di fama mondiale e trascorro tutta la mia esistenza salvando vite? Quindi: bellissime le armi ma…No!
Potremmo andare avanti a lungo e ognuno potrebbe aggiungere aneddoti simili.
Dobbiamo ripartire da un punto fondante di ogni disciplina: la fiducia.
Si arriva, presto o tardi -nell’AIkido: abbastanza presto- a scontrarsi con un limite. Non si riesce a progredire oltre se non si accetta di essere guidati. Se non si ha il coraggio di sospendere il giudizio e di lasciare che la proposta didattica ci modelli.
E’ un punto molto delicato, per tanti motivi. La fiducia è una merce molto preziosa e rara ed è costantemente predata, quantomeno nella società in cui viviamo. Nella sua espressione più genuina, facciamo esperienza e memoria di fiducia andando indietro agli anni della nostra infanzia.
Ma il rapporto di fiducia che si ha con un insegnante non può essere un sostituitivo, un surrogato del rapporto figlio/genitore. Né l’insegnante ha il diritto di proporsi come genitore o guru o comunque su un piedistallo morale rispetto all’allievo. Non dovrebbe essere così, perlomeno.
Eppure le discipline, tutte, marziali o non marziali, pullulano di situazioni di reciproca dipendenza. Da un lato il paternalismo (che è molto diverso dalla paternità che può essere espressa anche da un maestro) e dall’altra la ricerca di una figura più autoritaria che autorevole. Di qualcuno che mi dica che cosa devo fare. Un mix ideale per una tempesta perfetta, che genera cicli alternati di idilli e di sfuriate. Di coccole e di “no” urlati in faccia, da un lato e dall’altro, più o meno metaforicamente. L’humus perfetto che conduce a ribellioni che terminano più o meno tutte con lo stesso esito: gruppi che si sfaldano, persone che se ne vanno, musi lunghi e silenzi.
Bisogna ripartire dalla fiducia. Una fiducia serena è il frutto anche di un dialogo continuo tra insegnante e allievi.
Una mamma, un papà, sanno che il bambino deve essere lavato anche se dice “no”! E, a un certo punto, lo prendono di peso e fanno ciò che sanno che è giusto fare. Sanno anche che non potranno fare sempre così.
Un insegnante sa (dovrebbe sapere) che cosa dovrebbero fare gli allievi ma non può fare altro che chiedere la fiducia. Imporsi non porta ad altri risultati se non a un gruppo fatto di soldatini che hanno paura del loro sergente istruttore. Questo nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, che è anche la più diffusa, il gruppo si dissolve, giustamente.
Che rapporto ho con la fiducia e quanto mi fido? Di me, dei miei compagni, dei miei istruttori?
E perché?
Disclaimer: Foto di Brett Jordan su Unsplash
Quanta fiducia ci vuole per fidarsi di “cri – -cri” Articolo molto bello