I post sull’efficacia delle Arti Marziali ci hanno definitivamente rotto.
L’Aikidoka medio, solitamente, si approccia alla pratica senza un solido retroterra di competenze marziali o di combattimento.
Di solito, l’utente di un corso di Aikido ha al limite qualche trascorso in qualche disciplina. In generale, per quasi tutti, è necessaria una robusta alfabetizzazione, tanto motoria quanto marziale.
Questo è solitamente un bene: come suggerisce il proverbio, è difficile riempire una tazza se questa è già piena. Per contro, la condizione mentale del praticante alle prime armi è di una perenne confusione.
Nomenclatura giapponese, schemi motori nuovi, ambiente diverso da quello a cui siamo abituati, minime ma chiare regole di etichetta… Il tutto tradotto in sguardi che cercano in continuazione l’insegnante come per dire: “Sto facendo giusto?”
Negli scambi tra tori e uke, uke va a terra perché…deve. Ed è già un gran risultato se tori ha inanellato correttamente tutta la sequenza: prima il gomito, poi il polso, poi lo spostamento…
Ogni volta che siamo in un contesto in cui dobbiamo imparare qualcosa di nuovo e a cui non siamo abituati, torniamo bambini. Un buon insegnante deve conoscere il bambino a cui si rivolge e saperlo incoraggiare per i piccoli progressi, anche se nel frattempo il guscio di quel bambino è andato in pensione.
Si instaura così, nella testa del praticante di Aikido, l’idea che il proprio partner finisca a terra per amore o per forza. In altri termini, ci si convince che la pratica sia in qualche modo divisa tra l’esecuzione di una forma e che interiorizzarla significhi diventare capaci di non lasciare scampo al proprio uke.
Tanto nel Ju Jutsu quanto nel suo nipote andato alla scuola per le buone maniere che è l’Aikido, si fa esperienza di definitività. Come per i diamanti della De Beers, anche una chiave articolare è per sempre, come lo è un bloccaggio a terra o una linea di squilibrio.
Tuttavia bisogna ricordarsi che, al pari di ogni altro Budo tradizionale, l’Aikido è stato palesemente strutturato come strumento di miglioramento personale, come una metodologia per contrastare una visione egoica ed egoistica dell’esistenza.
Scivolare lentamente nel sovrapporre una supposta maestria tecnica con la capacità di vincere tutto e tutti in qualsiasi situazione, non è nient’altro che riaffermare il proprio ego -oltre a non avere la minima consapevolezza di che cosa sia una condizione di minaccia critica a livello fisico.
Forse bisogna trovare il coraggio di riaffermare che è dal momento in cui decide di sferrare l’attacco che uke accetta di rimanere dentro la dinamica dell’esecuzione di una tecnica o di una concatenazione di tecniche, anche casuali.
E se facciamo fatica a chiamare “amore” questa disponibilità, perlomeno ricordiamoci che non siamo obbligati dal dottore a concludere l’azione “per forza”.
Eppure, che si guardino bambini di sei anni eseguire ikkyo ura o adulti principianti o praticanti esperti portati al limite della loro tenuta psicofisica, vedremo spesso uomini e donne estremamente compassati nell’etichetta, impegnati nell’allenamento, leali nelle relazioni nel Dojo, torcere gomiti e polsi ai malcapitati compagni.
Ci si interroga, ciclicamente e a più livelli, su come e a chi comunicare in modo efficace l’Aikido e in generale il Budo.
Probabilmente una risposta convincente passa anche attraverso un ambiente in cui imparare bene un linguaggio tecnico chiaro e ben eseguito, permette di uscire dal paradigma del “per forza”, lasciando poi all’individuo la responsabilità di capire che se riesce ad eseguire movimenti sempre più complessi “per amore” su un tatami, allora può ricordarsi che lo stesso principio funziona anche fuori.