Proviamo a guardare alla pratica di una disciplina marziale dalla prospettiva dell’equilibrio.
Al progredire degli allenamenti, ci rendiamo presto conto che la postura gradualmente cambia e con essa la capacità di mantenere un certo equilibrio. Col tempo, i due concetti vanno in qualche modo a sovrapporsi e a rappresentare la nostra capacità di gestire il corpo nella maniera più funzionale possibile in relazione alle condizioni al nostro contorno.
Più o meno istintivamente, il praticante di Arti Marziali sviluppa la consapevolezza che l’equilibrio è un fenomeno adattivo: il corpo, anche in condizione di quiete, agisce continui aggiustamenti posturali.
Questa è una prima, fondamentale, ri-scoperta: l’equilibrio non coincide con la rigidità, piuttosto è esattamente il contrario. In effetti, quando un principiante si avvia ai primi esercizi, esprime solitamente movimenti rigidi, a scatti: si tratta di una inevitabile rimappatura delle competenze motorie.
Attraverso gli esercizi svolti, si fa esperienza di alcuni “sensori” chiave dell’equilibrio fisico. Agganciando col braccio la testa di un compagno da sotto il mento (irmi nage), mandiamo in tilt i meccanismi interni al suo orecchio. Veri e propri accelerometri che restituiscono informazioni rispetto alla posizione della testa rispetto all’asse del corpo e che, perturbati, ne compromettono l’equilibrio.
L’annebbiamento della vista con un atemi ravvicinato e non necessariamente impattante, va a confondere la capacità del sistema di compensare i movimenti antero posteriori, rendendo incapace la persona, seppure per una frazione di secondo, di andare avanti o indietro in modo fluido e libero.
La pratica a piedi scalzi amplifica la capacità di quelli che sono veri e propri sensori di pressione (baropressori) che, attraverso la pelle, restituiscono informazioni sulla qualità del terreno e dell’appoggio, rendendo il piede capace di assorbire e restituire energia, dando stabilità al corpo. In questo, si fa diretta e continua esperienza del fondamentale e continuo apporto di caviglie e anche all’equilibrio.
Con l’avanzare della pratica, l’equilibrio fisico viene percepito come la risultante di continue informazioni esterne e interne al nostro corpo, che coinvolgono tanto gli organi sensoriali quanto la percezione fine dell’adattamento del sistema muscolo scheletrico e delle viscere.
Familiarizzando con gli angoli di squilibrio, il praticante fa esperienza su se stesso del limite della propria stabilità. Lo stesso camminare rappresenta un continuo andare oltre il limite della stabilità per cercare un punto di appoggio e di equilibrio temporaneo.
La superficie di contatto di un essere umano sul terreno (o sul tatami!) è molto limitata. Le varie posture, come ad esempio il radicamento della guardia (pensiamo nell’Aikido all’hanmi), aumentano il poligono di appoggio, cioè la superficie data dal congiungimento delle parti posteriore e anteriori dei punti di contatto. Tuttavia, queste risolvono solo in parte la precarietà dell’equilibrio.
L’attacco, qualunque esso sia, prevede quindi che ci sia, contemporaneamente, la rinuncia dell’equilibrio da parte dell’attaccante (che va oltre il proprio limite di stabilità) e il contatto col corpo del compagno.
A ben vedere, la connessione fisica -pensiamo soprattutto ad una presa- va a conferire all’attaccante un vincolo che gli restituisce due superfici di contatto in più (i piedi dell’attaccato) e quindi un poligono di appoggio molto più ampio di quanto potesse mai creare da solo.
Senza avere competenze ortopediche e di posturologia, il praticante di discipline marziale diventa quindi un esperto sul campo del proprio e dell’altrui Sistema Tonico Posturale e le tecniche si svelano per quello che sono, cioè degli strumenti di consapevolezza, dove la predazione controllata dell’equilibrio attiva un sistema di ripristino di tutto il sistema.
Si possono quindi trarre almeno tre piccole conclusioni.
La prima è che il principio di cedevolezza, insito in tutte le discipline marziali tradizionali, è requisito essenziale per poter fare esperienza piena di un equilibrio totalmente vissuto.
La seconda è che l’esecuzione delle tecniche secondo le linee prestabilite consente il ripristino, dinamico, delle condizioni di equilibrio perturbate da un attacco nel modo più funzionale possibie. Facciamoci caso: le linee che caviglie e anche definiscono nell’esecuzione delle forme tecniche sono le più dirette per facilitare l’attivazione di tutti i muscoli posturali.
La terza, intuitivamente banale ma non così dal punto di vista delle conseguenze reali è che concepire l’aggressione come una predazione dell’equilibrio cambia l’approccio alle situazioni di conflitto. Un’aggressione non è e non sarà mai accettabile ma vedere nell’aggressore un disequilibrio incarnato può modificare in noi la risposta.
Una risposta che, nello squilibrare chi è già di fatto squilibrato di suo, non fa che restituirgli ciò che più di prezioso c’è: uno specchio su cui riflettere.
Senza dimenticare il piccolo particolare che nella pratica…per metà del tempo siamo noi i predati e per l’altra metà del tempo, siamo noi i predatori, quelli che hanno perduto l’equilibrio a tal punto da doverlo cercare negli altri.
Disclaimer: Foto di Alexas Fotos da Pexels
Non è solo un equilibrio fisiologico
Siamo perennemente alla ricerca di un equilibrio morale, psicologico, affettivo… Ci dimentichiamo spesso che lo troviamo dentro di noi ma ancora di più nell’ascolto degli altri… Buona serata