Se questo post avesse intenzioni moraleggianti, avrebbe il vantaggio di essere molto corto.
Qualche frase a effetto, condita da qualche ovvietà e via. Ci alleniamo in una disciplina marziale non per imparare a prendere a manate in faccia un ipotetico aggressore ma per affrontare le tante sfide quotidiane. Perché il vero combattimento è arrivare a fine mese, non decapitare un collega, aver pazienza con un figlio e così via. Bla bla bla.
Tutte cose vere, eh!
Ma una delle caratteristiche di questo blog è consumare un po’ di inchiostro elettronico in più, con l’ambizione di non dire (troppe) ovvietà. Quelle le conosciamo già tutti. Quelle non servono.
Quindi la domanda è: che rapporto abbiamo col combattimento?
Se parliamo di competizione e di gare, al netto di qualche tentativo, un praticante di Aikido non combatte sul tatami. Non è previsto.
Nelle altre discipline in cui la gara è prevista, facciamo un po’ fatica a far coincidere il kumite sportivo, giustamente regolamentato, col combattimento. Da quel tipo di scontro totale che la natura ci ripropone in continuazione. Per un predominio territoriale. Per una predazione. Per cercare di garantire la sopravvivenza della specie.
Abbiamo avuto la fortuna di frequentare atleti di livello olimpico negli sport da combattimento. Allenamenti e performance estreme, cerotti, bende e lividi ovunque ma sempre e giustamente ben dentro il confine oltre il quale, come in natura, si ragiona in termini di vivo o morto.
E al di fuori del tatami?
Per ora, anche vivendo nel quartiere più degradato delle nostre città, non siamo nella condizione di salutare i nostri cari al mattino e di non sapere se mai li potremo rivedere la sera. Narcotizzarci di fronte alle varie guerre, alcune delle quali a poche centinaia di kilometri da casa, può velocemente riportare anche qui quel tipo di incertezza.
Ma per ora, di fatto, usciamo di casa e non combattiamo.
Quello che facciamo, invece, è attraversare moltissime dimensioni del conflitto.
Dall’esterno ci piovono addosso istanze di natura economica. Ed in effetti poter avere di che vivere assomiglia molto a una situazione da “vivo o morto”. Ma nessuno di noi si presenta al lavoro in gi e inizia a proiettare colleghi e fornitori (anche se vorrebbe, magari).
E poi tantissime disfunzionalità relazionali, sotto forma di tensioni, incomprensioni, asimmetrie.
Dall’interno i conflitti sfociano cristallizzandosi in paure. Una preoccupazione per un malanno improvviso, un’emozione soffocata e non riconosciuta per troppo tempo…
Tanti, tanti conflitti. Eppure, nessun combattimento.
E passiamo la vita ad allenarci per padroneggiare sempre meglio la tecnica. Chi per bloccare a terra, chi per colpire, chi per proiettarlo, chi per disarmarlo…Ma poi, quando combattiamo?
Pochi di noi sono professionisti della sicurezza e della difesa. Pochissimi sono membri delle forze di elite. E comunque, anch’essi, che pure il combattimento da “dentro o fuori” lo hanno sperimentato, vivono una professione che fortunatamente non ha nel combattimento una costante maggioritaria.
E quindi, che dire?
Questa bolla di pace che sembra dissolversi, che per la parte del mondo in cui viviamo ha garantito l’assenza di eventi bellici per ottant’anni, togliendo fortunatamente il combattimento dall’orizzonte delle esperienze comuni, ha lasciato un vuoto che forse non siamo stati capaci, come singoli e come nazioni, di colmare bene.
L’aggressività e il risentimento sono piante che hanno infestato la dimensione pubblica e privata del vivere sociale. Il tutto ben innaffiato da solitudini, disparità e un progressivo individualismo che al posto di mettere la persona al centro ha finito col soffocarla.
E laddove il combattimento di fatto imposto obbligava chiunque a cercare di rimanere “dentro” il tatami della vita, facendo bene attenzione a come e cosa dire e fare, la sua assenza non sempre ha favorito una pace matura ma un fiorire di conflitti su scala più piccola e di mille forme di psicosi.
E’ come se qualcosa dentro di noi, pur sapendo che c’è tutto da perdere, volesse comunque andare verso il combattimento. Attratti come una falena dal fuoco, non sappiamo costruire la pace con azioni concrete e la rimpiangiamo, una volta bruciata.
Sublimare tutto questo su un ring o su un tatami? Può servire ma non risponde pienamente alla domanda: esiste qualcosa per cui valga la pena di combattere?
O preferiamo riempirci la testa di riposte preconfezionate, anche codificate sotto forma di Arti Marziali, pur di non ammettere che ci sfugge, talvolta, che esistono cose e persone per cui vale la pena vivere e perché no, anche morire.
Il Budo, nel suo rifuggire il combattimento, nel suo vivisezionare il conflitto, si pone questo obiettivo. Tecnica dopo tecnica si propone di arrivare a definire bene le basi per porsi questa domanda. Senza fornire la risposta. Quella spetta solo a chi ha il coraggio di affrontarla.
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