Sensei (先生), senpai (先輩), kohai (後輩): la pratica di una disciplina marziale ruota intorno a queste tre figure.
A ben pensarci, ogni realtà umana si fonda sull’interazione di chi è “nato prima” (sensei) e indica una traiettoria a dei compagni di viaggio. Tra questi c’è chi partecipa all’avventura da prima (senpai, il compagno che è arrivato prima) e chi si è aggiunto dopo (kohai, appunto).
Oggi facciamo qualche riflessione sui kohai, gli “amici-dopo”, nella consapevolezza che aggiungere qualcosa di nuovo o di non detto su questo tema è molto arduo.
Il kohai è sacro e in qualche modo ha un potere salvifico, in un gruppo.
E’ sacro perché è un germoglio appena nato e proprio per questo è salvifico, perché è potente memoria di quello che tutti siamo stati. Ammesso e non concesso che oggi noi sappiamo qualcosa, ieri eravamo come quel principiante. Spaesati, a volte goffi, entusiasti e bisognosi di tutto. A partire da qualcuno che ci ricordasse la differenza tra lato destro e lato sinistro. Ricordare questo è un buon antidoto contro quella megalomania egoica che è sempre in agguato, specialmente quando le cinture iniziano a colorarsi di scuro.
Il kohai, nella pratica, è un allenatore spietato. Lo guardi e ti chiedi:
“E’ un’ora che stiamo facendo la stessa cosa…Come è possibile che non la sappia ancora fare”?
Quando ci pratichi insieme, se tu sei un grado un po’ più elevato, si sente in imbarazzo e quindi esegue la tecnica a scatti, tira delle leve apertissime che ti svitano qualsiasi articolazione. Ti impone un doppio lavoro: il tuo e una sorta di lavoro ombra. A metà fra il suggeritore e il facilitatore. Una sorta di quadernone marziale a quadretti su cui il kohai impara ad educare la sua mano per scrivere le prime figure, che diventeranno lettere, che si trasformeranno in parole, che comporranno frasi e che un giorno, conosciuta la grammatica, esprimeranno pensieri autonomi articolati e -perché no?- poesia.
Il kohai sfida. Talvolta volontariamente, il più delle volte inconsapevolemente, ma sfida. Pretende che un senpai sia coerente. Esige che sappia ricevere una tecnica. Che sappia cadere. E che la sappia eseguire sempre, in qualsiasi condizione.
Tutti atteggiamenti che fanno parte della comune esperienza di tutti. Fin da bambini abbiamo chiesto coerenza, abbiamo in qualche modo cercato scorciatoie rispetto alla fatica richiesta per crescere. Tutti dobbiamo quello che siamo alla paziente costanza di qualcuno che è stato al nostro fianco anche e soprattutto quando eravamo…spaesati, goffi, entusiasti e bisognosi di tutto.
Chiaramente, a un bambino piccolo, paffuto e carino siamo disposti a perdonare molto più che a uno che sia “neonato” nel contesto in cui noi siamo giù un po’ più avanti.
Spesso, nei discorsi da addetti ai lavori, si esalta lo shoshin 初心, la mente del principiante. Ma gli stessi addetti ai lavori, soprattutto quando iniziano a salire di grado, quando gli si para davanti un principiante che chiede di praticare insieme a loro, tengono spesso le distanze. E che diamine: è una vita che pratico e devo mettermi a soffiare il naso a una cintura bianca…
E se avere il cuore del principiante è importante, far battere un cuore di senpai per il principiante è fondamentale. Comprenderne le difficoltà e saper coglierne il potenziale è un’occasione enorme di crescita didattica.
Trovare il modo per comunicare in modo efficace la comprensione di quanto l’insegnante propone è una sfida enorme. Esige equilibrio e rispetto. Rispetto per il kohai, che ha diritto ad essere supportato ma anche a non essere oggetto di puro assistenzialismo paternalista. Rispetto per il senpai, che non è un messia in gi e quindi deve concentrarsi anche e soprattutto sul suo, di percorso. Rispetto per il sensei, che dai senpai chiede -ma non può pretendere- un supporto incisivo e rispettoso dei ruoli.
Lavorare con e per il kohai consente al senpai di mettersi un po’ di più nei panni del sensei e, in generale, di chi ha camminato prima sulla medesima strada.
Aiuta a capire che certe cose che magari lì per lì ci danno fastidio e che critichiamo, noi non saremmo nemmeno in grado di reggerle. Che quello che in prima battuta può sembrarci una proposta didattica riduttiva, un’organizzazione troppo semplice è un complesso sistema di equilibri di cui ha polso solo chi è più avanti.
Una delle funzioni del sacro è quella di orientarci a ciò che è assoluto. I kohai a volte mandano in mille pezzi l’aspettativa di dedicarsi quel paio di ore a fare ciò che ci sarebbe piaciuto e ci restituiscono la realtà di ciò di cui c’è bisogno. Come in qualsiasi famiglia.
Che è, come un Dojo o qualsiasi altro gruppo dedicato alla reciproca crescita, un luogo sano non se è perfetto ma se funziona. E non c’è miglior funzionamento di persone che sappiano, pur con prospettive diverse, riconoscersi sullo stesso cammino e quindi, in certo grado, kohai di qualcuno.
Disclaimer: Foto di Pexels
Siamo tutti, sempre, a qualsiasi età, dei principianti, bisognosi di qualcuno che ci indichi la via da seguire e a nostra volta, il più delle volte in modo inconsapevole,possiamo essere guida e sostegno per gli altri .È un buon articolo.