Qualche giorno fa ci si confrontava con un Maestro di Aikido, analizzando la situazione non facile di questi mesi e le mutate condizioni sociali ed economiche che fanno da sfondo a tutte le nostre attività, incluse l’organizzazione strutturata e la fruizione di corsi di Arti Marziali.
Si è detto e si è scritto molto a riguardo e ognuno ha una sua opinione che nasce dal suo punto di osservazione sul mondo.
Pochi mesi prima dell’insorgenza della pandemia, per motivi professionali, avevo realizzato una serie di studi di mercato per soggetti attivi nei settori dei media, entertainment e learning. Ne avevo approfittato per tratteggiare una profilazione dell’utente target. Ero soprattutto interessato a capire quanto fosse intenzionato un soggetto a spendere per praticare Arti Marziali, all’interno di determinati gruppi demografici.
Questo tipo di analisi è alla base di quasi tutta la strategia commerciale di quanto consumiamo: dal cibo al vestiario; dai piani telefonici alle assicurazioni; dagli abbonamenti per lo streaming al tempo “libero”. Esistono società che hanno fatto le loro fortune sulla creazione di banche dati che vivisezionano abitudini e comportamenti di persone, aziende, gruppi…
Euro più, euro meno -e con la consapevolezza di non essere il Premio Nobel per l’Economia- avevo individuato in 280 € all’anno la propensione media di spesa per l’acquisto del “prodotto”-corso di Arti Marziali. Questo quantomeno nel nord ovest italiano.
E’ vero, all’inizio le spese sono superiori: bisogna comprare l’attrezzatura, il vestiario e tutto il corredo. In quell’ammontare non si tiene conto dei trasporti, della benzina, dei consumabili (sì, ogni tanto si deve comprare il bagnoschiuma!). Non si tiene nemmeno in considerazione il fatto che un’esperienza un po’ più immersiva richiede certamente più tempo e denaro. Se nascono nuove amicizie il pub e la pizza non sono gratis, come non lo sono stage e trasferte.
Ad ogni buon conto, l’analisi restituiva un punto fermo utile per successivi ragionamenti e pianificazioni.
Poi è arrivata la pandemia. Con essa l’evidenza di una crisi economica preesistente ma messa a tacere troppo a lungo e, adesso, all’orizzonte sta sorgendo un discreto periodo di recessione vera, senza possibilità di maquillage.
Che dire? Da primi confronti e riesami, parrebbe che la propensione di spesa crolli, assestandosi in una forbice pari a un terzo o al più metà del valore originario. E’ vero che non ci sono sufficienti evidenze per fare tali affermazioni in modo definitivo ed è vero che nessuno può predire il futuro con certezza. Tuttavia diversi indicatori socioeconomici parrebbero -perlomeno alle nostre latitudini- indicare periodi turbolenti.
Per chi ha scelto l’insegnamento (delle Arti Marziali) come stile di vita e sorgente di sostentamento economico grazie alla propria riconosciuta professionalità, questi indicatori non sono certo entusiasmanti.
Per cui, nel confronto col Maestro citato all’inizio dell’articolo, sostenevo una prospettiva di oggettiva difficoltà. D’accordo, lo zoccolo duro di un Dojo può avere sviluppato una tale responsabilità da comprendere che una quota associativa è da corrispondere anche e soprattutto in momenti di crisi. Però la crisi c’è anche per lo zoccolo duro e, soprattutto, abituati a far quadrare i conti con determinati numeri di utenti, di cui i bambini sono quota significativa, i Dojo si troveranno da un lato con tanta richiesta di corsi, dall’altro con famiglie dalla ridotta capacità contributiva.
E qui, come accade spesso con chi cerca di usare quello che vive per comprendere un po’ di più se stesso e il mondo in cui ci troviamo, è nata una scintilla di luce profonda.
“La gente viene al Dojo perché sa che è un posto dove può essere e può imparare ad essere brava gente. Brave persone”.
Si possono (si devono) fare tanti discorsi di marketing, però il segreto è tutto qui.
Nel diciannovesimo secolo, in un periodo dilaniato da crisi economiche, sociali, demografiche e politiche, un bambino povero, cresciuto alla periferia di tutto, divenne, crescendo, il riferimento per migliaia di ragazzi, poveri e abbandonati come era lui.
Don Bosco ha centrato la sua attività a favore dei giovani creando luoghi dove potessero “stare allegri”, e dove potessero conoscere e mettere a frutto i propri talenti con lo studio e la professionalizzazione per diventare “bravi cittadini”. In verità, “buoni cristiani e onesti cittadini”, perché don Bosco sapeva -non solo credeva- che solo nutrendo anche la parte intima di ciascuno di noi la crescita può dare il massimo dei frutti.
Che cosa è necessario più di questo, oggi? Più del poter offrire a noi stessi e ad altri, insieme a noi, un po’ di allegria, che è quel moto dell’anima che viene dal condividere una alacrità, un fare, finalizzato, insieme, uscendo dai gusci del proprio distanziamento sociale?
Che cosa c’è di più necessario di costruire un luogo e un momento dove sapere di contare ancora qualcosa? Per se stessi; per qualcuno all’interno di un gruppo. Una certa narrazione politica ci ha abituati a pensare che nell’occidente democratico le individualità siano valorizzate e che si possa, virtualmente, diventare ciò che si desidera. Non è del tutto falso; tuttavia è piuttosto vero che di quello che pensa o non pensa, fa o non fa il singolo individuo, al sistema sociale non rileva più di quanto possa fare un sospiro di una formica.
Di fronte ai propri limiti e di fronte alle barriere più o meno invisibili della società, se il Dojo sa diventare comunità di persone e non solo gruppo di appassionati, allora può diventare quel posto e quel momento dove essere brave persone. Magari per due, quattro, diciotto ore nelle 168 della settimana. Sempre meglio di zero.
E se è così, allora si può, nella legge e nonostante i limiti della legge, costruire una relazione che consenta economicamente a chi dedica la sua vita alla comunità di vivere una vita degna, accettando probabilmente una prospettiva in cui chi può contribuisce al massimo di quello che può.
Se abbiamo il coraggio di uscire dai nostri gusci e di guardare alle questioni socioeconomiche con occhi nuovi sulla base di metodi di analisi consolidati, il mondo associazionistico del futuro assomiglierà più a una rete neurale che a una corporazione.
Tanti piccoli nodi, distribuiti chi in una palestra, chi in un dojo, chi in un parco, chi in una casa, connessi dalla condivisione della visione di un mondo che da sempre vive perché da sempre ci sono brave persone che cercano di rendere se stesse e l’ambiente loro vicino un po’ migliori di ieri.
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