Questo post è rimasto nelle bozze per quattro anni. Lo avevamo scritto di getto mentre eravamo nel “coprifuoco” previsto dalle misure del nostro governo a causa della pandemia. Non lo avevamo pubblicato allora perché il nervosismo e la tensione sociale divampavano un po’ ovunque e si sfogavano sui social network. Sarebbe stato un po’ parlare al vento, un po’ gettare benzina sul fuoco.
C’era, allora, la segreta speranza che un evento di simile portata e così impattante la vita di tutti avrebbe permesso di fare un passo in avanti. Cose piccole, per carità… Un po’ più di igiene personale. Un po’ più di attenzione nella convalescenza. Un po’ più di solidarietà, se non di fratellanza.
Quello che è successo dal 2021 ad oggi racconta un’altra traiettoria. Racconta di un mondo ancora più frammentato e ancora più incapace di affrontare in modo organico la complessità di problemi reali.
Chi, ieri, di fronte allo tsunami della pandemia trovava la scorciatoia del complotto e ipotizzava grafene, nanochip e cose del genere nei vaccini per dare a se stesso una spiegazione, oggi di fronte alla violenza della guerra inneggia altrui capi di stato che palesemente mettono sul piatto interessi economici e annessioni in cambio di quello che è l’ennesimo sopruso etichettato come pace.
Non stanno meglio gli altrettanto insicuri ipergiustizialisti che avrebbero volentieri messo alla forca allora chi tardava o si rifiutava a vaccinarsi e che, in nome di una sicurezza che evidentemente non possono darsi da soli, in fondo seguono spesso anch’essi quella chimera che la Storia ciclicamente ripete raccontando la farsa dell’uomo (o del governo) forte.
In un modo o nell’altro, gli effetti della crisi sono evidenti e non sono solo economici, per quanto questi siano pesantissimi e in buona parte irreversibili. L’individualismo si è acuito, ogni forma di confronto è pressoché sparita, lasciando spazio solo ad un’assertività estremamente polarizzata, che mira esclusivamente non ad argomentare il proprio punto di vista ma a ritenere errato e al limite dell’illecito quello altrui. In questo contesto, germinano forme violente di giustizia privata e, ai livelli istituzionali, autoritarismi e unilateralismi che non solo non fanno parte della vita democratica ma soprattutto, come la Storia insegna, aprono la strada a capitoli già letti e studiati e che purtroppo dovremo presto ripassare.
Ecco perché riteniamo che queste righe, oggi, siano ancora attuali. Buona lettura.
Col rito delle ceneri, inizia oggi il periodo di quaranta giorni di preparazione alla Pasqua.
Si dice “lungo come la Quaresima”. Un anno fa, con l’emergenza Covid-19 che iniziava a mostrare i limiti della tenuta dei nostri sistemi sociali, l’inizio della Quaresima era coinciso di fatto con la fine degli allenamenti regolari nel Dojo.
Riavvolgendo il nastro, ognuno di noi può paragonare il “prima” a questo lungo “durante” e tirare delle somme.
E’ ovvio che la gran parte delle rinunce di questi ultimi dodici mesi è stata forzata dalla situazione, quando non imposta: per legge, per impossibilità di alternative, per le condizioni sociali ed economiche al contorno. A volte tali rinunce sono state definitive: visi e voci che non rivedremo; lavori e attività cancellati.
Così approfittiamo di questa data odierna per fare una riflessione laica sul concetto di digiuno, di astinenza e di elemosina, che sono le tre pratiche tipiche di questo periodo.
Niente moralismi, nessun intento fastidiosamente consolatorio. Nessuna formuletta magica: “Visto che sei dovuto rimanere a casa, allora trasforma questa astinenza forzata in qualcosa che vuoi tu”.
Solo qualche parola in serenità
Digiuno ed astinenza sono tra loro correlati ma non coincidenti. Sotto il profilo strettamente alimentare, astenersi totalmente dall’ingerire cibo è quello che propriamente definiamo digiuno. Alimentarsi facendo attenzione a non ingerire determinati alimenti è ciò che intendiamo astinenza.
Guardando il digiuno e l’astinenza da un’altra prospettiva, notiamo che entrambi sono connotati da alcune caratteristiche:
- anche nella loro radicalità, c’è un inizio e c’è una fine (il digiuno più estremo ha comunque un termine, magari definitivo);
- chi li pratica lo fa spinto da motivazioni di rafforzamento, purificazione; dall’esigenza di una maggiore disciplina mentale, spirituale, fisica;
- generalmente, qualunque sia l’estrazione culturale e spirituale, la persona che fa esperienza di digiuno e astinenza, scopre strumenti per contrastare il proprio ego (egoismo) e contemporaneamente aprirsi verso le esigenze altrui.
Quest’ultimo punto si aggancia al concetto di “elemosina”. La società materialista in cui viviamo ha pervertito il significato di questa parola. Del suo originale significato di “gesto spinto da compassione” è rimasto molto poco in quei soldi (tanti o pochi) che escono frettolosamente dalle nostre tasche per i “poveri”. Spesso sperando che ci sia sempre qualcun altro a prendersi cura dei problemi, perché noi “paghiamo”.
L’elemosina è qualcosa di più. E’ il punto di arrivo di un percorso di crescita alimentato col digiuno, rafforzato con le rinunce che lentamente scalpellano l’egoismo di cui siamo portatori e permettono al nostro cuore di avere “pietà”, di vivere con e insieme agli altri.
Portiamo ora l’attenzione alla piccola, grande burrasca che ha scompaginato i piani e le abitudini chi chi lavorava, di chi praticava e di chi si divertiva su un tatami.
I sentimenti diffusi sono di rabbia, di impotenza, di disillusione; non esattamente di “compassione”. Non solo per chi ha dovuto rinunciare all’abitudine del martedì e del giovedì sera ma anche e soprattutto per chi ha investito la propria esistenza nel diventare un insegnante che vive di attività “di contatto”.
Tuttavia…
Siamo studiosi di conflitto. E, in condizioni normali, siamo tutti concordi sul definire l’Arte Marziale come uno strumento di contrasto al proprio egoismo. Ci riempiamo anche abbastanza la bocca di “lasciare andare” e frasi del genere.
C’è un aspetto della nostra pratica che non dipende dalle imposizioni altrui ma da noi?
Forse sì: guardiamo alla qualità dei nostri rapporti. Con i compagni di pratica. Con i sensei.
Siamo riusciti a esprimere nei nostri confronti, nei loro confronti, la capacità di “com-patire”? Di vivere insieme questo momento, a volte uscendo da noi stessi per andare verso le esigenze altrui di minor solitudine o di altro tipo di supporto? Gli altri sono riusciti nei nostri confronti?
O c’è ancora bisogno di digiuno?
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