“Things Worth Dying For: Thoughts on a Life Worth Living” – “Cose per cui vale la pena morire: pensieri su una vita che vale la pena vivere”.
In queste righe condividiamo una riflessione che origina dal titolo di un saggio di prossima pubblicazione, scritto da Mons. Charles J. Chaput (*).
La pubblicazione riprende il titolo di una conferenza tenuta dall’autore alla Notre Dame University in Indiana, Stati Uniti, nell’ottobre del 2019, il cui contenuto è fruibile qui.
“La caratteristica fondamentale della nostra era è che indebolisce i legami, ci piega su noi stessi e ci seduce a vivere senza amore. Sentiamo frasi come “l’amore vince” e “l’odio non abita qui”, ma spesso queste parole sono solo slogan in una guerra culturale colma più di amarezza che onestà.
Ci hanno promesso celebrità sui social media, nuove esperienze coi nostri prodotti, tecnologie, viaggi e benessere nel successo professionale. Ma non siamo realmente incoraggiati ad amare. L’amore autentico è ordinato alla verità; la verità sugli esseri umani, sulla natura umana e sulla creazione.
E’ esigente e richiede abnegazione. Si ancora a realtà che sono profondamente umane, profondamente gratificanti e che sono le più profonde fonti di gioia – ma che sono anche scomode e facilmente viste come un peso.
E’ una buona cosa, una cosa vitale, considerare ciò per cui siamo disposti a morire. Cosa amiamo più della vita? Anche solo fare questa domanda è un atto di ribellione contro un’epoca senza amore.
E rispondere con convinzione è diventare rivoluzionari; quel tipo di rivoluzionario amorevole che sopravviverà e resisterà – e un giorno riscatterà un Occidente tardo moderno che non può più immaginare nulla per cui valga la pena morire, e quindi, alla lunga, qualcosa per cui valga la pena vivere”.
武士道というは死ぬことと見つけたり – Bushidō to iu wa shinukoto to mitsuketari: La via del guerriero è scoprire la morte.
Questa frase, presa dall’Hagakure, riassume la visione essenzialmente taoista alla sua radice che ha ispirato l’etica e la visione della vita giapponesi, in quel mix unico di scintoismo, confucianesimo e buddismo che ne ha generato la spiritualità.
La fedeltà incondizionata e acritica del samurai al suo signore, la totale dedizione ad una vita di progressivo distacco dai legami terreni e la convivenza quotidiana con la morte in combattimento, hanno inciso col sangue la storia e l’anima di un popolo.
La pratica di una disciplina marziale affonda le radici in questo contesto culturale. Non è infrequente contemplare, anche in Occidente, situazioni in cui abbondano allievi che seguono fedelmente e acriticamente il loro istruttore. Allo stesso modo, quando si parla con alcuni praticanti esperti, si sente spesso dire che esiste un livello di pratica che è possibile solo se si accetta di coesistere con “la morte al proprio fianco”.
Quale sia questo livello di pratica, è compito del singolo individuo scoprirlo. Appare chiaro però che è relativamente facile vestirsi da samurai; è relativamente facile anche arrivare ad avere costanza per allenarsi ogni giorno, impadronendosi del bagaglio tecnico e fare tutto quanto necessario per rivestirsi di una scorza formalmente ineccepibile.
E’ un po’ più scomodo “considerare ciò per cui siamo disposti a morire”. E dare una risposta alla domanda: “Cosa o chi amiamo più della nostra vita?”.
Altrove, su queste pagine, avevamo ospitato la riflessione di un istruttore spagnolo che parlava di questo periodo come di una “parentesi” della vita.
In un altro passaggio della sua conferenza, Mons. Chaput, riprendendo un concetto di Zygmunt Bauman, dice: “Noi fluttuiamo in un mondo liquido di scelte illimitate. Questa può sembrare una benedizione ma spesso si trasforma in una maledizione. E questo perché solo una persona senza peso può galleggiare”.
Guardandoci allo specchio, qualunque sia la nostra condizione, non possiamo non avvertire la sensazione di vivere una situazione simile ad una tempesta dentro uno di quei souvenir di vetro: capovolgi la sfera, il liquido fa muovere le sagome dentro, scende la neve finta ma poi è sempre tutto lì, fermo, immutato.
La corsa verso una soluzione medica della pandemia forse diminuirà le prospettive di morte per effetto del Covid-19, eppure l’opinione pubblica è divisa tra timori, incertezze, slanci. La cifra del vivere sociale pare essere sempre più l’individualismo: che non è né obbedire ciecamente come un samurai al proprio daimyo, né avere il coraggio di esprimere una scelta chiara su quali siano i motivi per cui accettare di vivere e quindi di morire e viceversa.
Il rischio è che le nostre abitudini diventino un anestetico per le domande che contano sul serio. Che il nostro rimanere aggrappati alla vita al punto tale da nascondere montagne di ingiustizie sociali alla base del nostro benessere sotto il tappeto della nostra coscienza, sia semplicemente un’abitudine non ragionata. Che messi di fronte alla domanda: sai amare? probabilmente daremmo risposte che non vorremmo ascoltare.
Che cosa c’è dentro e oltre la nostra pratica?
*Charles Joseph Chaput (1946) Cappuccino francescano, è stato Arcivescovo di Denver e Filadelfia. È stato membro della United States Commission on International Religious Freedom (USCIRF), dal 2003 al 2006. Conferenziere e saggista è autore, tra gli altri, di Render Unto Caesar: Serving the Nation by Living Our Catholic Beliefs in Political Life (2009) e Living the Catholic Faith: Rediscovering the Basics (2011), Strangers in a Strange Land: Living the Catholic Faith in a Post-Christian World (2017).
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