– E lei, che cintura ha?
– Di tela. Ti piace? Supermarket: 3 e 98!
– No…Non intendevo “cintura” in quel senso.
– In Okinawa cintura serve solo per tener su pantaloni.
Dialogo tra Daniel LaRusso e Keisuke Miyagi in “Per vincere domani – Karate Kid”
Da ottobre 2020 -da quando cioè è stata sospesa l’attività nei centri sportivi degli sport da contatto- la mia cintura nera e l’hakama sono lì. Indumenti lavati, stirati e riposti ben piegati nel loro sacchetto nella borsa che uso per gli allenamenti, in attesa.
Come scrivevamo in altre occasioni, la nostra comunità di pratica si è subito organizzata per mantenere vivo il senso del keiko, una certa continuità di pratica e di studio tecnico, con le lezioni online.
Non sono un fanatico del keikogi e dell’hakama: mi trovo molto più a mio agio in tuta. Riconosco tuttavia a questi indumenti alcune qualità. Aiutano ad entrare in una dimensione culturale, demarcando con forme orientali un confine tra il resto della giornata e il keiko. Facilitano l’apprendimento delle geometrie delle tecniche (le linee di alcuni tagli seguono la forma del gi; alcune prese sono possibili solo con questi abiti). Aiutano l’individuo a sentirsi parte di un gruppo e il gruppo a trasmettere un necessario concetto di uguaglianza e di pari dignità. L’hakama inoltre agevola una postura corretta, rende spedito lo spostamento in ginocchio, consente una migliore dispersione dell’impatto sul tatami… Anche se trasforma le gambe in una serra equatoriale.
Negli allenamenti online ho ritenuto importante mantenere l’abitudine a vestire il keikogi, tenuto su però dalla mia vecchia cintura bianca. Non sono un marzialista con cinquant’anni di esperienza sulle spalle: il mio è un piccolo gesto e i miei “perché” forse possono essere uno spunto per altri.
Il primo perché è: non perdere l’abitudine alla scomodità. In questi mesi ho notato che il lavoro da casa (che pure è una benedizione, se paragonato a molti meno fortunati) è diventato qualcosa che se non ben arginato, prende il sopravvento. Aumenta il numero di ore lavorate, aumenta la produttività e si rischia di non gestire bene il tempo. Ma c’è un rischio più sottile: se te ne stai nel tuo piccolo guscio a forte trazione virtuale, tutto ciò che è eccezione, tutto ciò che richiede una modifica delle abitudini, tende con l’essere combattuto e rimosso.
Allora ben venga l’appuntamento fisso con i tuoi compagni -anche se su Zoom- e sia benedetto questo scomodissimo pantalone con i laccetti e questa casacca da pizzaiolo orientale tenuta su da una fascia di cotone che comprime la pancia.
Praticare una disciplina marziale in tuta è sicuramente più comodo ma il corpo si muoverebbe in un modo diverso. E quando si riprenderà la pratica ordinaria, il corpo dovrà essere abituato alle sensazioni che l’abito trasmette al corpo durante il movimento.
Il secondo perché è: in ogni cambiamento ci sono punti fissi. Cento anni fa l’Aikido non esisteva, fra cento anni, ammesso che esista ancora il termine, l’Aikido sarà qualcosa di molto diverso da quello che era e che è (o che pensiamo che sia). Allo stesso tempo, ci sarà per sempre da una parte l’essere umano con il suo universo interiore e i suoi aneliti di miglioramento, dall’altro una pluralità di strumenti più o meno compiuti, uno dei quali è l’Arte Marziale, per tale miglioramento. Il punto fisso del mio cambiamento -auspicabilmente per il meglio- è il lavoro keiko dopo keiko. Quel punto fisso, in questo vortice, è rappresentato -anche- dal vestirmi come se fossi al Dojo. Perché in realtà, il Dojo è ovunque si pratichi il percorso che abbiamo scelto.
Anzi: è la sacralità delle nostre case che viene ulteriormente riconosciuta dal nostro viverle anche come luogo di pratica. E’ quella sacralità che poi, portata al Dojo, permette al Dojo di essere un luogo di crescita, per me e per gli altri.
In qualche modo, siamo costretti a portare l’Aikido nelle nostre vite, nelle nostre case. Ed è come se la vita obbligasse un po’ tutti a comprendere quali siano le sorgenti che dissetano le esistenze. Se aspettiamo che sia la fruibilità di un luogo -il Dojo- a determinare la possibilità di dissetarci e di dissetare, rischiamo di aspettare a lungo.
Il terzo perché è legato alla cintura bianca. Nessuna sciatteria da falsa modestia. Stiamo vivendo un enorme passo evolutivo della nostra società. Stiamo cercando di interpretare questo passo evolutivo come possiamo. La pratica da casa è una novità assoluta. Lo sono le forme, le modalità. Lo sono pure i principi e le prospettive, perché il contesto di un corridoio è decisamente diverso da quello di una sala tatami.
Allora io ho scelto di vivere questo non come un periodo di sospensione ma come un nuovo inizio, un nuovo capitolo di questo mio percorso.
Ho sempre sostenuto che essere una cintura nera sia in realtà il segno di un nuovo apprendistato. Per traslato, questo vale sempre: si diventa padri e si percepisce una diversa dimensione dell’essere figli; si fa carriera e si vedono i neoassunti con un’altra ottica; si mette su famiglia e si capiscono i propri genitori con aumentata profondità.
Questo periodo mi ha messo a nudo. Più lavoro, meno entrate; più impegno, meno soddisfazioni; più dedizione, meno attenzioni; più connessioni, meno relazioni; più allenamento…più sbavature, piccole, medie e grandi.
Non so se la comoda abitudine del Dojo mi avrebbe aperto gli occhi così tanto e così in fretta, in questi mesi, sui miei limiti, indicando chiaramente la direzione.
C’è una parola, nella nostra tradizione occidentale: κένωσις – kenosis. Rappresenta lo “svuotamento”, più precisamente l’incontro tra il divino e l’umano (nella tradizione cristiana, la scelta di Dio di incontrare l’uomo nell’incarnazione di Gesù).
Lo svuotamento che abbiamo vissuto e che stiamo vivendo è qualcosa di più profondo di una mera cintura bianca o nera messa addosso. Di farsi chiamare allievo, senpai, maestro, sensei,…
Allora la domanda che mi pongo è: di che cosa avevo riempito la mia vita, i miei simboli? Di che cosa li riempirò?
E’ ovvio che mi rivestirò con le insegne del mio grado e della mia qualifica. Ma li riempirò di boria, perché in fondo demarcano una gerarchia o saranno strumento per il servizio?
Si stanno scaldando i motori per la ripartenza. Non sarà immediata, non sarà totale, non sarà soprattutto un colpo di spugna su quanto abbiamo vissuto.
Ci si organizza nel mentre per mantenere accesa al minimo la macchina organizzativa, predisponendo i passi necessari per il rientro. Alcuni pianificano esami, altri sono indietro, altri sono scomparsi, altri ancora aspettano il ritorno alla normalità. Come quelle donne che scrutavano l’orizzonte ogni giorno attendendo il ritorno delle navi con i loro cari a bordo.
Bene ma a un shoshinsha (初心者), principiante assoluto, che cosa serve per praticare?
Chiari esempi, chiare motivazioni e punti di riferimento. Ora e domani. E un piccolo posto, nel tempo e nello spazio, da dedicare a se stesso, sentendosi parte di una comunità.
Sennò il rischio reale è che si tengano in piedi abitudini e strutture, ruoli e gerarchie, gradi e qualifiche, perché non siamo in grado di comprendere come evolve tanto la disciplina quanto la società – e soffocheremo, non per il Covid-19 ma per l’incapacità dell’associazionismo di parlare alle persone.
Al limite potremo sempre reclamare che il Maestro Miyagi parlava di Karate e non di Aikido.
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