Inchinarsi

Non è necessario avere un’opinione su tutto, né dover dire la propria pubblicamente sui social network. Anzi.

Non può tuttavia passare inosservato il recente clamore mediatico legato alle varie manifestazioni pubbliche di singoli sportivi, intere squadre e federazioni durante i campionati europei di calcio, attualmente in corso.

I temi sono quelli sensibili (eticamente e quindi mediaticamente) relativi al contrasto alla discriminazione nei confronti delle persone omosessuali. In parallelo, diversi giocatori, se non intere squadre, hanno preso l’abitudine a inginocchiarsi prima dell’inizio delle partite, ripetendo gesti collegati al movimento statunitense Black Life Matters.

L’epoca in cui viviamo pone delle sfide sociali enormi. La pandemia ha sconquassato l’apparente tranquillità e sta lasciando uno strascico di instabilità. Sulle grandi questioni (il lavoro che scarseggia, l’economia che arranca, l’accesso alle cure per tutti, l’istruzione depauperata e non competitiva, la sicurezza, la certezza dei propri diritti), non è difficile avvertire un grande silenzio, al di là delle apparenze di facciata e di convenienza che arrivano dalla politica partitica.

Così, riempire questo vuoto dando in pasto all’opinione pubblica l’indignazione a comando sul dibattito “inginocchiarsi sì/inginocchiarsi no”, “bandiere arcobaleno sì/bandiere arcobaleno no”, diventa un gioco molto semplice. Che confonde la causa con l’effetto, derubrica tutto a folclore e, soprattutto, crea l’ennesima fazione dei pro e dei contro, togliendo di mezzo la possibilità di affrontare i grandi temi del rispetto dovuto a tutti, della verità, dell’inclusione sociale che deve essere offerta a tutti.

Un praticante di Arti Marziali che cosa può dire su questi temi di attualità? Per quale motivo varrebbe la pena rompere un silenzio che sarebbe persino conveniente, al limite farisaico e opportunista??

Massimo Decimo Meridio, ne “Il Gladiatore“, interrogato se al rientro a Roma sarebbe stato dalla parte del Senato o dell’Imperatore, risponde: “Un soldato ha il grande vantaggio di poter guardare il suo nemico negli occhi“.

Noi non siamo soldati, non ne siamo nemmeno l’ombra lontana. Siamo persone normali che, attraverso un’Arte Marziale, cercano di migliorare se stessi giorno dopo giorno. E, così facendo, cerchiamo di dare un contributo alla società, partendo da noi stessi.

Soprattutto, nelle Arti Marziali, noi abbiamo il privilegio di poter guardare negli occhi non un nemico, ma un altro me stesso. Di riportare il pallino della discussione dal virtuale al reale.

E’ sul tatami, in quel preciso momento, che io posso accogliere o rifiutare una persona.

E’ sul tatami, qui ed ora, che io posso comprenderla o ulteriormente etichettarla. E’ tutto lì. Non negli stadi in cui gioca un calciatore professionista. Non nel post di un influencer. Non nelle interviste di un politico.

La nostra vita è lì, dove siamo. Questo insegna il realismo di ogni disciplina che, passo dopo passo, ci rende aperti a quanto succede intorno a noi e modella la nostra capacità di responsabilità: agendo quindi non per spirito di gregari ma perché quanto facciamo risponde ad un imperativo che nasce da dentro.

E sì, siamo persone che mediamente, in due ore di allenamento, profondono qualche centinaio di inchini. Ci inchiniamo di fronte a una calligrafia, di fronte a una foto, di fronte al nostro maestro, di fronte ai nostri compagniNessuno di noi lo ha mai fatto né lo farà mai perché, dall’altra parte dell’Atlantico, la polizia ha massacrato una persona di colore.

Nessuno di noi lo ha mai fatto né lo farà mai perché ha di fronte a sé una persona omosessuale.

Nei nostri semplici inchini, permettetemelo, ci sono motivi più profondi e più duraturi di qualunque fenomeno mediatico o sociale. E sono quei motivi che riverberano nelle parole di Morihei Ueshiba: “Quando ti inchini all’​Universo, esso ricambia il tuo inchino”.

E’ qualcosa di diverso rispetto alla semplice -eppure importante- forma degli ojigi (おじぎ), gli inchini della cultura giapponese che manifestano il rispetto nella relazione.

E’ qualcosa che parla della ed alla natura più profonda di ogni essere umano e che si apre ad una dimensione spirituale che non è condizione essenziale per una pratica fisica di una disciplina ma che lo diventa perché la disciplina possa essere strumento di crescita, integrazione e promozione sociale.

Questo, per inciso, è il motivo per cui il nostro essere cristiani cattolici praticanti, non è messo in discussione dall’aderire alla forma insita nella pratica. L’inchino fatto al Dojo è una forma, orientale, attraverso la quale provare a mettere in pratica quel comandamento così facile ma così complesso che dice “ama il prossimo tuo come te stesso” e, per aver individuato una via -una delle tante- per poterlo allenare, la memoria del fondatore è altrettanto da onorare.

Non solo, ma a ben vedere, non è possibile amare il prossimo senza la contemporaneità delle parole che lo precedono: “Ama il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la tua mente“. Che cento anni fa un giapponese abbia parlato di Universo, è secondario. La pratica, appunto, ha il vantaggio di poter guardare dritta negli occhi la relazione con gli esseri umani, senza degradare in proselitismi strani o in sincretismi inutili e fornire gli strumenti per farsi le domande di senso.

Un piccolo sasso gettato nello stagno dell’indifferenza, della banalizzazione e dello stordimento mass mediatico, può partire anche da questo microcosmo che è il mondo delle Arti Marziali e contribuire a rimettere al centro la grandezza della vulnerabilità dell’essere umano, che è riflesso di una bellezza e verità più alte. In questa prospettiva -e solo in questa- è possibile onorare l’esistenza di chiunque e inginocchiarsi di fronte al prodigio che ciascuno di noi rivela.

Disclaimer: Foto di Lily Banse da Unsplash

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