Poter spendere del tempo per osservare un gregge è un privilegio -non solo perché questo vuol dire che siamo in ferie.
Spesso l’essere umano ed il suo comportamento sono assimilati a quello delle pecore. Ma perché? E soprattutto: che cosa può imparare l’uomo dalla pecora?
Le pecore sono animali tranquilli, socievoli. Hanno una spiccata predisposizione a vivere in gruppo, includendo piuttosto facilmente altre pecore che dovessero essere aggiunte al gregge -ammesso che ci sia cibo per tutti.
Pur vivendo e spostandosi in gruppo, sono animali molto autonomi: sanno cosa fa loro bene mangiare e cosa no; sanno dove è meglio ripararsi dalle intemperie e dai fulmini; riconoscono i volti e i suoni del loro gregge. Pur essendo miti, se alcuni capi sono allontanati dal gregge, questi si lamentano con forti belati. Autonomi sì, ma meglio se uniti.
Hanno un innato senso di protezione e di cura nei confronti degli agnelli; questi, dal canto loro, sviluppano un forte legame sia con la madre sia con gli altri membri del gregge.
A rigore, potrebbero non aver bisogno delle cure -interessate- di un pastore. Eppure le pecore sono legatissime al pastore -e ai suoi cani. Sanno che il pastore è lì per proteggerle, per accudirle. Lo sentono.
E del resto non poche volte abbiamo sentito pastori che affermavano che sarebbero morti per proteggere i propri agnelli.
Legate a doppio filo, le esistenze del gregge e del pastore non parlano di uno scopo economico o di sussistenza. Sarebbe troppo riduttivo.
Parlano di una dimensione della vita dove il confine tra l’io e il noi è contemporaneamente chiarissimo e stemperato.
Le pecore sentono se il pastore è nervoso o è contento. Il pastore sente e vede se le pecore stanno bene.
Un gregge senza pastore è una massa indistinta di “noi”. Un pastore, senza pecore, non solo non è un pastore ma è una persona enormemente sola.
Pastore e e gregge camminano insieme, seppur con livelli e finalità differenti. Il pastore sa che cosa è bene per il suo gregge perché lo conosce, vede le sue inclinazioni e lo conduce là dove è meglio per tutti. E il gregge lo segue, perché esercita quella virtù così preziosa e rara che è la fiducia mansueta.
Similmente, il pastore non impone sempre l’andatura al gregge; anzi, lo segue, facendo attenzione a che non si disperda.
I tempi che viviamo ci inducono spesso a ritenerci tutti pastori autodeterminati e autodeterminanti.
Ci spingono a pensare che far parte di un gregge sia disonorevole, infantile, dannoso. Pensiamo di essere unici -e lo siamo- ma interpretiamo la nostra unicità attraverso la contrapposizione o la ribellione. Greggi di pecore disperse, distanti, divise.
Greggi che gemmano altri greggi, sempre più piccoli e contrapposti: informazione e controinformazione; cultura e controcultura; fazioni e partiti…
Invece il gregge è lì, silenzioso testimone biancastro che ondeggia nei pascoli, a indicare la possibilità di un mondo dove è possibile conciliare individualità e gruppo, leadership e obbedienza, cura e comando, interesse del singolo e della comunità.
Un tempo, un folle faceva scrivere sui muri delle case all’ingresso dei paesi frasi ad effetto, tra cui: “Meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora”.
Forse non aveva mai visto un gregge davvero.