Che valore ha la fedeltà? Che cos’è, a che cosa serve? In che senso poterne parlare all’interno di una disciplina?
La storia di Hachiko, il cane che per anni si è recato alla stazione di Shibuya, a Tokyo per attendere il ritorno del suo padrone, è diventata un paradigma di fedeltà incondizionata. Una speranza incrollabile, un senso di reciproca appartenenza che ha commosso e ispirato generazioni di persone fino ad oggi, ben al di fuori dei confini del Giappone.
Con la fedeltà accade, come in altre virtù, una sorta di disconnessione. Tutti vorremmo godere di legami così forti, puri e fedeli come quello di Hachiko col suo padrone. A maggior ragione tra esseri umani.
Tutti soffriamo enormemente quando la fiducia viene tradita, quando un legame si corrode a causa dell’infedeltà.
Non tutti siamo capaci di dare fedeltà allo stesso modo con cui la desideriamo. Se così non fosse, non vivremmo in una società altamente frammentata.
Una delle sette virtù del bushido è la lealtà, chu (忠). E’ un ideogramma molto semplice e per questo profondo: rappresenta simbolicamente ciò che risiede in mezzo al cuore.
Il frutto, l’attitudine della lealtà è chujitsu (忠実), che si traduce come “fedeltà”.
In queste settimane, rimanendo in un contesto marziale, ho sentito parlare di fedeltà in diverse prospettive.
Negli ambienti marziali la fedeltà è un concetto scivoloso. Lo è sempre.
Se degrada in dipendenza; se il senso di appartenenza al gruppo soffoca le esigenze dell’individuo e viceversa, parlare di fedeltà assume i contorni di una vicendevole manipolazione. La lealtà è un valore tra persone libere e la fedeltà ne è l’espressione più alta.
Capita di tanto in tanto ascoltare il ritornello che “la mentalità giapponese ricompensa la fedeltà. I gradi elevati certificano la fedeltà, non la maestria tecnica”.
Spesso abbiamo sentito questo tipo di affermazioni. Ogni volta riferite non ai propri gradi e ruoli ma a quelli altrui. La fedeltà altrui, vista come fastidio. Forse perché riscontra un effettivo servilismo. O forse perché rispecchia una perversione della fedeltà che chi critica non riesce ad agire o non può vivere.
In media, nel volgere di otto, dieci anni, un gruppo di pratica si modifica totalmente. Sono pochi coloro che attraversano indenni nel tempo le foto di gruppo intorno al sensei. I più se ne vanno.
Eppure, in quel tratto di strada comune, in media si incontrano solo persone entusiaste: sembra che esista solo la pratica, il dojo, la tecnica.
Poi, però… Si tratta di una mancanza di fedeltà? E’ mancanza di lealtà uscire da un gruppo?
Torniamo alle virtù del bushido. Virtù di un mondo fatto di tecnica, di lavoro fisico, di relazione a stretto contatto con un compagno di pratica.
Torniamo a quel kanji (忠), che esprime qualcosa che non è tecnica, non è lavoro fisico.
Se la fedeltà degrada nella dipendenza; se la fedeltà degrada nel servilismo o nell’utilitarismo; se la fedeltà viene vista addirittura come un disvalore, allora bisogna guardare bene cosa c’è dentro il cuore e non altrove.
Se il dentro -l’intenzione- esprime lealtà e il fuori -la tecnica- la riverbera, allora ha un senso parlare di fedeltà. Ha un senso investire tempo e risorse per un percorso che da fuori si fa fatica effettivamente a comprendere.
E si finisce per scoprire che un Dojo è un piccolo laboratorio artigianale, un’officina dove provare a dare qualche martellata al nostro “io” per uscirne persone un po’ migliori.
Disclaimer Foto di feelalivenow da Pexels