Nel 1932, Jacques Maritain pubblicava “Distinguere per unire: i gradi del sapere” (Distinguer pour unir: ou Les degrés du savoir). In quest’opera, il filosofo francese poneva il principio di analogia come fondamento del suo metodo.
Tanto più si approfondisce l’analogia, quanto più si delineano le differenze, in quello che è lo schema interpretativo di quello che è passato alla Storia come uno dei più grandi pensatori del XX secolo.
Un maestro e un allievo, per esempio, sono legati da diverse analogie. Sono esseri umani entrambi. Entrambi condividono il tempo e lo spazio dell’apprendimento e della pratica di una materia, di una disciplina. Maestro e allievo sono contemporaneamente distinti da differenze significative: differenti livelli di comprensione della medesima materia portano -ad esempio- a differenti gradi di esecuzione.
Come in tutte le attività umane in cui sia coinvolta una trasmissione del sapere e delle competenze, le Arti Marziali attingono a piene mani al principio di analogia.
La forma -kata- e l’allenamento ripetitivo di essa -kata geiko- sono proposte di analogia. Basta calpestare per qualche tempo il tatami per rendersi conto che quando il sensei propone un movimento a dieci persone, generalmente il risultato è ottenere venti movimenti diversi da quelli proposti.
Però i veri guai arrivano dopo, quando gli schemi motori sono allenati a sufficienza da far sembrare il movimento dell’allievo sovrapponibile a quello del maestro.
Sì, perché all’inizio, quando si fa letteralmente fatica a distinguere la destra dalla sinistra, è fin troppo facile cogliere le differenze in una cornice di rarefatte analogie.
Dopo, invece, si può avere l’illusione che la forma supplisca alla sostanza. Che le differenze siano appianate. Che non ci siano spazi di crescita, perché le distanze tra noi e il modello si sono ridotte a zero.
La Storia è piena di racconti in cui l’allievo supera il maestro: è un fenomeno che non è sporadico, fortunatamente, sennò saremmo ancora lì a vivere nelle caverne.
La Storia è anche piena di allievi che pensano di aver superato il maestro e invece sono rimasti fermi. Così come è pieno di maestri che hanno smesso di investire nella propria crescita. Qui iniziano i danni.
La pratica degli sport da combattimento è accomunata dal concetto del “condizionamento del fisico”. Allenamenti molto duri e continuativi per irrobustire il sistema muscolo-scheletrico e renderlo funzionale alle tecniche, capace di forza esplosiva e sufficientemente indurito per resistere agli impatti.
Le Arti Marziali tradizionali non sono generalmente esenti da questa prospettiva che, è il caso di dirlo, richiederebbe una qualificata competenza di preparazione atletica da parte degli istruttori. Una “qualificata competenza” che ancora oggi, quasi il 20% dei collaboratori strutturati (chi è nell’organigramma di una società sportiva) non ha. I numeri verosimilmente raddoppiano nelle realtà non strutturate.
Ci sarebbe dunque da riflettere se il percorso atletico di condizionamento proposto sia davvero funzionale e rispettoso delle condizioni fisiche del praticante. I dubbi sono molti e sono confermati dai professionisti della preparazione atletica: ne avevamo parlato qui.
Ci sarebbe inoltre da riflettere, grazie al principio di analogia, se il condizionamento fisico serva per fornire al praticante delle pericolose rassicurazioni basate sul principio di analogia (“sono diventato grande e grosso come John Cena”) a discapito di un annacquamento delle differenze e delle distanze che separano sempre individuo da individuo.
Ma non esiste solo il condizionamento del fisico, che in alcuni settori, come l’Aikido, viene talvolta smorzato per consentire all’individuo di arrivare a una continuità di pratica fino alle soglie della terza età.
Esiste altresì il condizionamento mentale. Non meno potenzialmente pericoloso.
Vincere la pigrizia, essere fedeli ad una disciplina, stringere i denti, spostare un po’ più in alto la propria asticella: indubbiamente questi sono aspetti che costruiscono l’io interiore. Se diventano assoluti possono sfociare in atteggiamenti distruttivi: praticare nonostante un infortunio, negare i limiti, assolutizzare gli allenamenti a discapito di un’armonizzazione della pratica rispetto al resto della giornata (e viceversa).
La mente, come un lampo, crea al suo interno l’immagine perfetta dell’esecuzione di una tecnica. Peccato che il corpo non le obbedisca, soprattutto se non allenato e abituato all’integrazione incarnata dell’intenzione.
Si genera quindi una dicotomia, di cui soffre enormemente il mondo delle Arti Marziali. Da un lato i fabbri senza martello, gli intellettuali dei principi, dall’altra i martelli senza il fabbro dietro, i terminator senza scheda madre. Entrambi assolutamente convinti di essere fedeli repliche di un qualche lascito tecnico incarnato in questo o in quel caposcuola, shihan, sensei, veggente e madrenatura.
Non serve, nelle Arti Marziali come nella società, omologare tutto e tutti ad un’unica visione. Intellettualismo e pragmatismo sono mali della nostra società, già noti a Maritain novant’anni fa. Non solo irrisolti ma esacerbati. Da un lato una deriva disincarnata, intimista, dove tutto va bene perché espressione di un qualche moto interiore dell’individuo. Dall’altro una deriva tecnocratica, dove tutto può essere insegnato e tutto deve essere asservito al sapere perché tutto si risolve sul puro piano materiale.
Serve invece “distinguere per unire”, perché è solo evidenziando le analogie che si può porre le basi non solo di una convivenza ma anche e soprattutto di un percorso che porti tutti a lavorare sulle distanze che, separandoci, ci permettono anche di definirci come individui.
Esattamente come durante una tecnica sul tatami.
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