Comprendere non significa approvare. Provare dolore non significa soffrire.
L’altra sera al Dojo, il Sensei è partito da queste distinzioni per sviluppare un percorso didattico basato sulla totale accettazione durante le due fasi, ricettiva e attiva, della pratica.
Dal punto di vista prettamente fisico, possiamo definire l’accettazione come quella condizione di rilassamento che consente ad entrambe le parti una maggiore fluidità, efficacia e sostenibilità della tecnica.
Una condizione psicofisica non rilassata, determina attacchi meno veloci e meno precisi. Implica un assorbimento limitato e contratto e quindi non del tutto indolore. Genera, infine, una reazione, per quanto involontaria, che aggiunge rigidità e forza in proporzione eccessiva rispetto alla reale situazione.
Il risultato è, spesso, maggiore dolore dovuto alle contratture, infiammazione ai tendini e alle articolazioni, impatti lesivi e l’aumento della probabilità di infortunio.
Citando Koichi Tohei, “la mente muove il corpo”. Uno degli effetti della pratica di una disciplina è fare “reverse engineering” del nostro sistema.
Poter smontare gli ingranaggi di cui siamo composti per vedere come siamo fatti “dentro”, grazie a qualcosa che si svolge “fuori”, a livello fisico.
Questo processo, dal punto di vista della geometria tecnica marziale, non aggiunge apparentemente nulla. Si può scegliere di praticare per tutta la vita una serie di tecniche ed eseguirle formalmente in modo ineccepibile. Esteticamente inappuntabile. Delle bellissime statuine vestite col gi.
E’ chiaro che quel rilassamento che porta alla cedevolezza, concetto tanto caro al mondo marziale, può mettere in luce limiti fisici oggettivi. Questo in sé sarebbe già un grande risultato, perché permette di fare i conti con il proprio corpo e le sue esigenze.
Ma se è vero che è la mente che guida il corpo, è utile poter dotare il proprio sistema di un metodo per toccare con mano quelle situazioni in cui emerge una rigidità non necessaria.
Le rigidità, le tensioni, le difficoltà diventano delle spie che si accendono, sotto un determinato stress fisico. Si fa esperienze dell’esistenza di questi eventi -e della possibilità di ampliare la capacità di rilassamento, una volta noti.
E’ qui che il lavoro inizia, però. Perché è la rimozione del blocco mentale che permette di rimuovere definitivamente un blocco fisico che non dipende da una menomazione.
Sotto questo punto di vista, un keiko può diventare spesso un laboratorio di programmazione neuro linguistica in movimento. Un’officina in cui, con modelli presi in prestito dall’analisi transazionale, facciamo conoscenza con le componenti del nostro ego, smontiamo i pezzi di cui sono composte le nostre credenze, mettiamo in luce e in gioco i nostri valori.
Ne aveva parlato già il Maestro Marco Rubatto dieci anni fa. Sempre più articoli di ricerca abbinano le metodologie tipiche di PNL, neuroscienze, Analisi Trasnazionale e aspetti prettamente legati al coaching insieme alle discipline marziali come elementi utili alla risoluzione del conflitto.
Non si testa un’automobile subito in strada. La si prova in circuito. Lo stesso avviene al Dojo, che dovrebbe essere quel luogo sicuro e pulito a sufficienza per far emergere quelle parti di noi e delle nostre relazioni che non sono così “ok” come pensiamo o diciamo.
Un po’ come quando si risponde “Tutto bene” a chi ci domanda come va. Anche quando vorremmo rispondere tutt’altro.
Nel coaching, in ambito professionale, relazionale o sportivo, sono analizzate le interazioni perché è da esse che può nascere la migliore performance personale, come il peggiore dei conflitti.
In tutti i casi, il lavoro inizierà e finirà su quell’unico soggetto su cui abbiamo il potere di esigere e ottenere un cambiamento: noi stessi.
Sospendiamo il giudizio -ci torneremo su queste pagine- rispetto al cambiamento altrui. Se sia giusto o meno richiederlo. Se sia condizione o meno per un nostro progredire. Se un certo set di regole debba o meno essere condiviso per favorire il reciproco benessere.
L’accettazione non può che essere una decisone personale, come lo è il desiderio di migliorare e di salire (col piede sinistro!) sul tatami, allenamento dopo allenamento.
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