Qualche tempo fa, un istruttore di kick boxing mi raccontava che da ragazzo in palestra disponevano di due sacchi. Uno “normale”. L’altro riempito con materiale talmente duro che l’allenamento a quel sacco era riservato solo a chi aveva il fisico “condizionato”.
Quando si parla di metodologie di allenamento nelle Arti Marziali, talvolta emerge il tema del condizionamento fisico e funzionale. Da alcuni visto come essenziale, per desensibilizzare parti del corpo rendendole strutturalmente più capaci di assorbire impatti violenti e dolorosi. Da altri visto come inutile, perché irrigidirebbe componenti muscolo-scheletriche del corpo, rendendo lento il movimento. Da altri ancora visto come pericoloso e dannoso dell’integrità della persona.
Taluni allenamenti di alcune discipline, insieme a documentari e film hanno mitizzato la figura del combattente che ripetendo colpi su colpi contro una sagoma, sviluppa il corpo indistruttibile…
Il tema del condizionamento funzionale del fisico offre l’opportunità per qualche riflessione.
A prescindere dalla prestazionalità fisica, ogni allenamento propone una certa qual dose di ripetizioni. L’allenamento formale (il cosiddetto katageiko 形稽古) offre al praticante una griglia, una grammatica dei movimenti, un sistema di geometria psicomotoria ottimizzato per la disciplina studiata.
Si fa esperienza diretta, in qualsiasi allenamento, della netta distinzione a livello estetico della performance di un principiante rispetto a quella di un praticante a livelli avanzati.
Il corpo viene lentamente e progressivamente introdotto alla fruizione dell’esperienza marziale codificata e via via sempre di maggiore “libera interpretazione”: in questo modo si sviluppano le piste neurali che rendono il sistema psicofisico capace di coordinazione, reattività, adattamento, flessibilità.
In un certo senso, anche questo è condizionamento, non meno significativo rispetto a quello di chi si fa crescere un callo osseo sulle tibie a forza di calci contro un sacco.
Ma se si riesce a condizionare il fisico, e in certo qual modo la mente, cosa dire del cuore?
L’evoluzione delle Arti Marziali ha condensato nel combattimento di gara il lascito delle antiche arti di guerra. Per contro, la prospettiva dell’Aikido pretende di superare la distinzione vincitore/vinto, entrando in una dimensione non duale in cui la condivisione dei valori, la ricerca del miglioramento personale e dell’armonia della relazione sono possibili proprio grazie all’accettazione del conflitto.
Nella pratica c’è dunque un’attitudine valoriale, che certamente non attiene alla sfera fisica o mentale, che viene costantemente stimolata, o perlomeno dovrebbe esserlo.
Per cui potremmo essere indotti a ritenere che, al pari del fisico, anche il cuore sia sottoposto a un condizionamento, attraverso la pratica.
Se così fosse -e dal nostro punto di vista lo è- allora è bene domandarsi quali effetti sortisca questo lavoro funzionale su quella parte di noi più intima, così potentemente fragile e così delicatamente capace di slanci enormi.
La consuetudine nella pratica solitamente modifica, amplificandola, la capacità di ascolto e di empatia. “Prendere la prospettiva dell’altro” è un concetto molto comune tra praticanti, ed è al tempo stesso l’unica chiave per risolvere in termini costruttivi e non distruttivi una tecnica.
Il “kaiten 回転”, da movimento puramente fisico, evolve in vera e propria rivoluzione e diventa l’elemento cardine su cui poter impostare un percorso di reale migloramento. Evolvere dal kaiten al kaizen 改善 non è solo questione di cambiare consonante ma se stessi e qui il gioco diventa più duro.
Pertanto se un muscolo, a furia di ripetizioni, può indurirsi, ci si deve interrogare se anche il cuore possa desensibilizzarsi.
“Prendere la prospettiva dell’altro” può anche degradarsi in semplice abitudine. Una sorta di riflesso pavloviano, determinato dalla pratica nel Dojo, terminata la quale il riflesso evapora e ognuno riprende la propria strada, le proprie abitudini e le proprie convinzioni.
La verifica della autenticità di quanto pratichiamo al Dojo si nutre di due inevitabili passaggi: quello tecnico e quello relazionale.
L’ovvia tentazione, come sempre, è quella della scorciatoia del puro individualismo: la tecnica non riesce perché “è colpa di uke” e le relazioni non migliorano perché “gli altri non mi capiscono” o non sono all’altezza della mia onnipotente capacità di comprensione e compassione verso l’intero universo.
Se dunque la pratica irrigidisce in questo modo il cuore, questa può marcire alimentando di fatto l’individualismo spinto, riducendosi ad uno dei tanti strumenti di solitudine di cui la società iperconnessa è dotata.
Può diventare la peggiore delle manipolazioni. Sugli altri e su se stessi. In pratica offrendoci la giustificazione per non cambiare. Mai.
Che dialogo, che relazione sarebbe quella in cui ci si limitasse a comprendere il punto di vista altrui, per poi lasciarsi esattamente come prima?
Al pari di altri fondatori di movimenti, Morihei Ueshiba parlava abbastanza chiaramente di fratellanza, di universalità. Di un messaggio per cuori non sclerotizzati nella perfetta ripetizione di un esercizio ma pulsanti nella condivisione dell’esigenza di una continua conversione (rivoluzione?) orientata al bello, al vero, al giusto.
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