Realtà e finzione. Narrazione e fatti. Persona e personaggio. Vita e forma. Conscio e inconscio.
Su questi temi, Luigi Pirandello ha costruito “Sei personaggi in cerca d’autore” un’opera teatrale apparentemente complessa, certamente una delle pietre miliari della cultura italiana ed europea del ventesimo secolo.
In quest’opera i vari personaggi narrano le proprie vicende, incarnando degli archetipi: c’è il Padre tradito e che vive nel rimorso; la Madre, che soffre per la conseguenza delle scelte e che inutilmente cerca di riconciliare la famiglia; la Figliastra, piena di rabbia e odio; il Figlio indignato e distante; il Giovinetto che soccombe e si elimina dalla scena e la Bambina, vittima inerme.
Per quanto ci sforziamo di essere originali, le nostre storie non sono così diverse dalle storie degli altri miliardi di uomini e donne che ci hanno preceduto e che verranno dopo di noi.
Nella nostra unicità, le nostre vicende seguono trame fantasiose ma percorrono snodi tra loro simili. In famiglia, nella società, nelle relazioni. Di fronte alle difficoltà, di fronte alla gioia e al dolore.
Sul tatami si affacciano, nelle tante discipline e nelle multiformi proposte, più o meno sempre le stesse tipologie di persone.
C’è il turista esperienziale, c’è il passivo, l’aggressivo, il passivo-aggressivo, quello che deve sfogare rabbia e frustrazione, quello che vuole fare un percorso solo fisico o solo intellettuale/spirituale, c’è chi non sa perché si trovi lì…
E poi c’è di mezzo la disciplina. Un percorso apparentemente neutrale, come neutrale è una lama: può rimanere ferma, incidere per operare e guarire, tagliare per cucinare, ferire, uccidere.
La disciplina può prendere la persona e trasformarla lentamente in un personaggio, tecnica dopo tecnica, caduta dopo caduta, allenamento dopo allenamento.
Quindi, anziché rafforzare, scoprire e ridefinire la propria identità, il percorso su cui camminiamo scalzi strisciando i tatami, può creare un ennesimo livello. Un “io” che proiettiamo e che va in scena per il tempo dell’esperienza dell’allenamento.
La finalità della disciplina agisce invece al contrario: dal personaggio alla persona. (Sul concetto di persona e di individuo si fa molta confusione: torneremo su queste pagine).
Ci si veste, ci si comporta, ci si relaziona secondo regole di comportamento e di ingaggio che fanno sì che noi, in quel momento dell’allenamento, “Impersoniamo” ruoli, modelli e comportamenti che non ci sono propri.
Lentamente, questa dualità (l’io che si allena, l’io che si narra al di fuori delle mura del Dojo) mette in luce chi siamo, chi diciamo di essere e quanto è ampio il divario tra realtà e narrazione.
Lì sta lo spazio, quotidiano della scelta: ridurre questo divario o cedere alla narrazione di noi stessi.
Nell’opera di Pirandello, la scena finale è quella della fuga. Gli attori fuggono dal palco, impauriti, disorientati dalla impossibilità di poter dare un senso globale alle vicende e alle narrazioni dei singoli personaggi.
Ogni storia di pratica di qualsiasi disciplina ha una fine.
Molte storie hanno una fine che ha il gusto della fuga. Molte volte tutti abbiamo conosciuto persone intrappolate nel proprio personaggio, incapaci di ammettere a se stesse di non trovare più un senso. Né per riavvolgere il nastro e tornare persone, né di concludere la propria narrazione.
Che questo accada su un tatami o fuori, è irrilevante.
E’ rilevante invece -anzi, è essenziale- chiedersi se l’ambiente in cui pratichiamo e il messaggio della disciplina siano dei veicoli a supporto di una visione compiuta di senso tanto per noi quanto per chi cammina con noi.
Diversamente rimaniamo personaggi in cerca di Autore.
Disclaimer: foto di Brett Jordan da Unsplash