Nel 1997, André Cognard, il più autorevole esponente dello stile di Aikido proposto da Hirokazu Kobayashi in Europa, scriveva:
“In effetti, il maestro di arti marziali è uno straordinario concentrato di tre personaggi dei quali non è possibile ignorare l’importanza: il capo guerriero, il sacerdote e il medico. Possiede tre volte il diritto di vita e di morte e ciò evidentemente favorisce lo sviluppo dei deliri, l’espressione di mitomanie e altre forme di megalomania. Per l’Aikido in particolare l’aspetto sacerdotale è rafforzato dall’intenzione spirituale originale e quello medico dalle pratiche paramediche alle quali è generalmente associato (shiatsu, katsugen, kappo, reiki, etc.). La confusione tra i valori scintoisti e buddisti aggiunge lo zen alla lista degli strumenti di investitura del potere spirituale. Quanto all’aspetto guerriero, esso è magnificato dal mito della sintesi delle odierne arti marziali e la pretesa eredità dei samurai.
Infine, il tema della non violenza, benché nell’Aikido attuale sia sviluppato solo sporadicamente, apporta una pseudodimensione filosofica che conferisce all’insegnante di Aikido questa immagine supplementare del filosofo e del saggio”.
Come spesso accade di fronte a pensieri profondi espressi in modo complesso -quale è lo stile di Cognard- si ha contemporaneamente la tentazione di ignorare tale complessità o di accettarla acriticamente.
Cerchiamo invece di riflettere sul significato di tali affermazioni che sono indirizzate a chi ha un compito di responsabile tecnico di un corso ma che, a ben vedere, si rivolgono a chiunque pratichi una disciplina marziale.
Per quello che ci riguarda, ogni volta che saliamo sul tatami come allievi, vediamo certamente un maestro. Con tutta onestà, ad accoglierci è un tecnico esperto, non un sacerdote, non un medico né un capo guerriero. A nostra volta crediamo di non porci come tali nei confronti dei nostri studenti.
Tuttavia è vero che gli archetipi della disciplina affondano le loro radici nelle tecniche di combattimento; che la conoscenza del funzionamento di un corpo può aiutare a “sistemare” contratture, errori posturali e altri difetti di utilizzo del nostro fisico; che il lavoro costante sulla dimensione fisica impatta inevitabilmente su quella psichica.
Ogni praticante, che sia al primo giorno o al suo cinquantesimo anno continuativo di esercizio, attraversa questi tre ambiti, a diversi livelli di consapevolezza.
La parte difficile del percorso di crescita di ognuno sta, tra il resto, nel cercare un equilibrio dinamico tra queste aree, nel trovare persone competenti e oneste cui affidarsi come allievi e, sempre nella prospettiva di allievi, utilizzare le conoscenze acquisite per crescere insieme ad altri.
Nella vita civile avviene spesso che le competenze acquisite diventino punti di forza sui quali sono costruiti rapporti asimmetrici e di manipolazione. Sugli altri e su se stessi.
Può avvenire, se non si ponte costante attenzione, in un percorso di sviluppo personale. Può succedere che, come allievi, ci si deresponsabilizzi, mitizzando il tecnico o gli allievi anziani, delegando ad essi il compito di usare cuore e cervello per operare le nostre scelte.
Può accadere che gradualmente lo scopo della pratica si trasformi in un raggiungimento di un ruolo sociale da esercitare sugli altri. Individui che costruiscono un piedistallo perché incapaci di accettare di essere “come” gli altri, al più con delle qualità differenti. Individui che hanno bisogno di mettere qualcuno su un piedistallo perché incapaci di vedere il proprio valore e la propria dignità.
Ampliando le prospettive individuate da André Cognard, quindi, possiamo chiederci:
“Il praticante di un’Arte Marziale è un guerriero? Può dirsi un filosofo, un saggio? Riveste una dimensione a suo modo sacra”?
Certamente esercitarsi dà al praticante la capacità di vedere con maggiore chiarezza nella confusione di un conflitto. Altrettanto certamente, questo sapere apre la mente del praticante alla curiosità della conoscenza dei meccanismi che sottendono il pensiero e l’agire umano e, in questo senso, il tempo dedicato a coltivare se stessi per vivere con pienezza e raggiungere una certa qual armonia con gli altri, è sacro.
A fronte di grandi possibilità, esistono simultaneamente grandi rischi di perdersi in una spirale egoica ed è forse questo il senso ultimo del pensiero di Cognard, che nel suo scritto elenca quegli elementi in presenza dei quali occorre fare molta attenzione nel nostro ambiente di pratica: la mitomania, la megalomania; una certa propensione a ritenersi “migliori” degli altri solo perché siamo dei “marzialisti illuminati”; la dipendenza allievo/guru come cifra di un rapporto; la sovraimpressione -e non integrazione dell’ambito marziale su altri domini (medicina, psicologia, psichiatria, scienza dell’alimentazione, fisiatria, etc.)
La pratica costante, con e grazie agli altri, permette all’allievo come al maestro di vedere queste “spie” accese sul proprio cruscotto e di intervenire per tempo, senza perdersi.
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