Ci sono molti modi per far male. Ma pochi feriscono quanto i commenti taglienti e i giudizi. Specialmente in famiglia o nella cerchia primaria.
Se camminiamo per strada vestiti con il “gi” perché magari siamo durante la pausa di uno stage, poco ci importa di incrociare gli sguardi -incuriositi o divertiti- dei passanti.
Diverso è quando la nostra scelta di praticare non viene compresa all’interno delle nostre relazioni strette.
L’incomprensione ha molte sfaccettature. Alcune superficiali, altre, come la derisione o la denigrazione che fanno male: non essere accettato non piace a nessuno.
Nella nostra esperienza con le nostre famiglie di origine, non è stato facile condividere i motivi della nostra scelta. Ci è voluto tempo per mostrare che questo percorso di crescita contribuiva a dare una versione migliore di quei Sara e Andrea che le nostre famiglie erano abituate a conoscere.
Più ancora precisamente, c’era anche il timore che la nostra essenza di cristiani potesse essere in qualche modo destabilizzata. Che i valori dentro i quali avevamo vissuto potessero in qualche modo disperdersi.
Il dialogo, di per sé molto semplice, non è stato facile. Ma ha condotto negli anni a esiti diversi, alcuni inattesi. C’è chi ha compreso, c’è chi si è avvicinato a discipline orientali e adesso pratica con passione, c’è chi non tocca l’argomento, accontentandosi di una zona neutra in cui perlomeno c’è il rispetto delle reciproche posizioni.
L’incomprensione fa male. Ma è anche un momento di benedetta verità. E’ un’occasione per capire che spesso ci relazioniamo più con le etichette che con le persone che ne sono seppellite.
Questa è una sfida, anche e soprattutto per l’incompreso.
Se la mia costanza nel vestirmi da giapponese qualche volta a settimana; se il mio dedicare del tempo alla mia crescita personale è sbrigativamente etichettato come “ridicolo”, che cosa comunico di quello che sono? Di quello che faccio?
Quali sono i miei perché?
Tornando al nostro vissuto: se alcuni parenti temevano che la pratica dell’Aikido potesse indebolire la nostra vita spirituale e valoriale, dove era il problema? Nella loro visione distorta di noi? Nella loro visione distorta del Cristianesimo? O dell’Aikido? O magari anche il nostro essere cristiani appariva come una adesione formale ad un elenco di valori e non come un qualcosa di più vivo, reale, vissuto?
Nel cercare il confronto ed il dialogo, insieme ai perché di una scelta, vengono così a galla le aree in cui la nostra persona è chiamata a fare un salto di qualità. Così come emergono le tentazioni di lasciar perdere, fare un passo indietro e accontentarsi del quieto vivere, rivestendosi di etichette.
Questi momenti fanno male perché le persone che ci sono più care ci dicessero che non ci conoscono. E viceversa.
E in fondo è proprio così. La paura di sondare le asimmetrie nei rapporti e l’inevitabile istintivo terrore dell’abbandono fanno scattare meccanismi di reazione. Per portare l’altra persona di nuovo all’interno della routine, il meccanismo più usato è l’attacco verbale.
Chi pratica una disciplina in cui si studiano perennemente l’equilibrio e l’adattamento ha in questo caso il dovere di spegnere l’escalation, cercando nella condivisione quel nuovo terreno su cui progredire nella più approfondita scoperta di sé e dell’altro.
Non è semplice e richiede tempo. Ma col tempo, dimostrare davvero a se stessi di essere una versione migliore di prima, magari più attenta, magari più sincera, magari più…serena rende credibile e possibile invitare queste persone a condividere qualcosa del proprio mondo. Magari una serata con i compagni del corso. Magari vedere un allenamento, un esame insieme. Esattamente come può e deve nascere la disponibilità a condividere e conoscere qualcosa di più del loro mondo.
Di certo c’è questo: le cose belle alla lunga uniscono e non dividono ma hanno tutte un prezzo da pagare. E di solito ne vale la pena.
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