Tra gli addetti ai lavori è nota la frase attribuita a Morihei Ueshiba:
一教 一生 入り身 投げ 三年, ikkyo issho, irimi nage san nen: ikkyo tutta la vita, iriminage tre anni
Prendiamo il testo giapponese della citazione. Copiamolo in un motore di ricerca e scopriremo che non esiste una singola pagina internet in giapponese in cui la frase sia riportata così come è arrivata alle orecchie di mezzo mondo aikidoistico, specialmente nostrano. Curioso, vero?
Poco male. I kuden, i detti, hanno lo scopo di trasmettere sinteticamente qualche forma di concetto. Che poi abbiano un fondamento storico o meno o che servano ad alcuni per collocare il fondatore dell’Aikido e la disciplina stessa in una zona ibrida tra mito, guru e modello irraggiungibile, questo è secondario.
Quindi: san nen: tre anni. Va detto che per Morihei Ueshiba tre anni di pratica erano intesi tre anni di allenamenti quotidiani. Sette giorni su sette vissuti nel Dojo. Totale dedizione e abnegazione. Per quelli di noi che sono più assidui, si arriva ad una pratica settimanale di dieci, quattordici ore. E ci sembra di essere la reincarnazione di Bruce Lee.
Quindi, per poter comprendere e padroneggiare iriminage è più che probabile che servano ben più dei tre anni di ueshibiana memoria. Esagerazione? Forse.
Ci capita abbastanza frequentemente di imbatterci in praticanti di Aikido che seguono impostazioni didattiche differenti da quelle in cui siamo cresciuti. Questi momenti di confronto sono molto utili. Si scoprono punti di forza, altrettante lacune da colmare. Soprattutto si cerca di fare il “reverse engineering” o perlomeno una filologia dell’Aikido: da differenti dialetti tecnici si cerca a risalire ad un principio comune. Se lo si riesce a identificare e a metterlo in atto a livello fisico, lì avviene il contatto con quanto è stato il lascito del fondatore.
Recentemente abbiamo confrontato il modello didattico dell’iriminage a cui siamo abituati con l’impostazione maturata nella linea didattica dell’Aikikai di Francia. Non è la prima volta e ogni volta è arricchente.
L’apprendimento di base dell’Iwama Ryu richiede all’attaccante -uke- di sferrare il colpo con chiarezza e decisione e poi di radicarsi, lasciandosi deformare dal compagno che, così facendo, ha la possibilità di studiare gli angoli di squilibrio e di trovare quelle geometrie tali per cui la tecnica può essere conclusa.
Un’impostazione didattica dai pregi innegabili, sia per la schematizzazione, sia per la chiarezza. Ma che presenta anche tre grossi rischi, abbastanza noti. Il primo: l’evoluzione dallo studio in forma statica alla forma dinamica spesso è complessa perché…Uke non è abituato a muoversi fluidamente. Quando si passa al ki no nagare, i tatami che seguono la didattica di Iwama sembrano inizialmente popolati da tanti piccoli Robocop. Il secondo: le linee delle proiezioni portano spesso uke a cadere in modo “eccentrico” rispetto alla linea di azione. Un po’ come se uke ruotasse intorno al proprio ombelico, spingendo in fuori glutei e gambe. Il terzo: imparare a finalizzare “a prescindere”, può portare a desensibilizzare il praticante, rendendolo incapace di comprendere che cosa stia facendo e a chi. Figuriamoci il perché.
Si dice che la didattica sviluppata da Christian Tissier abbia portato ad una pratica “relazionale”. Qualunque cosa significhi, è vero che l’enfasi sui tempi di ingresso, sulla gestione dinamica delle distanze come condizione per attivare il movimento della coppia, sono elementi che si percepiscono direttamente quando si ha la fortuna di praticare con chi, di quel mondo, è rappresentante autorevole.
Non facciamo nessuna difficoltà ad ammettere che tolti dal nostro acquario per essere messi a nuotare in altre acque, su alcune cose ci adattiamo subito, su altre un po’ meno, su altre ancora sembra che non funzioni nulla, su altre, infine, si scopre che il corpo non ha (ancora) le competenze richieste da quel tipo di pratica.
Sappiamo, perché lo abbiamo visto parecchie volte, che questo vale per tutti, quindi anche a parti invertite.
E il punto è proprio qui: ci abituiamo ad acquisire schemi motori che funzionano…Fintantoché le premesse sono note e condivise. Da questo punto di vista, la pratica in dinamica è denudante: amplifica sia l’incapacità, sia l’incoerenza del movimento da un lato, sia l’esasperazione dell’aspettativa dall’altro: “Se tu mi prendi…se…se…se…”.
Tant’è vero che, quando due o più prospettive didattiche si incontrano, la frustrazione emerge e ci si rifugia spesso in ciò che pensiamo di sapere e non si progredisce piuttosto nel tentativo di seguire la proposta tecnica del sensei. Qui la pratica -meglio: i praticanti- tende ad essere divisiva e non piuttosto unita nella ricerca. Ed è un vero peccato.
Ma coraggio, san nen: tre anni. Calcolati alla O’Sensei però. Vediamo quindi quanto ci vuole per un praticante medio che faccia tre allenamenti a settimana di due ore:
3 anni x 365 giorni x 6 ore di allenamento al giorno circa = 6570 ore.
6570 ore : (6 ore a settimana x 52 settimane) = 21 anni e qualcosa.
Quindi è legittimo pensare che, dalle nostre parti, un praticante che abbia un’anzianità media di 21 anni di pratica costante, quindi almeno un quarto dan, abbia appena appreso a eseguire iriminage.
Per ikkyo c’è tempo.
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