“Matteeeeeeeeeeee….”
“Yameeeeeeeee…..”
Bastano pochi mesi di frequenza ad un corso di una disciplina marziale giapponese e si inizia a familiarizzare con diversi termini a mandorla. Magari non ne viene spiegato il significato, però dopo poche settimane mediamente si capisce il senso.
Così, quando il Sensei dice “matte” (con una o due “t” a seconda dell’umore…), si interrompe la pratica e quando si sente “yame“, si sa che è finito quel particolare esercizio.
“Chotto matte kudasai” (ちょっと 待って 下さい) significa “attendi un momento, per cortesia”. E’ una frase usatissima in tutti i contesti e in tutte le culture, tuttavia abbiamo l’intima convinzione che dopo “mamma” e “papà”, i bambini in Giappone imparino a dire “chotto matte kudasai”. La troviamo ovunque: a lezione di Giapponese, nei dialoghi, nelle letture…Ovunque.
Del resto l’attesa è forse una delle esperienze universali che accomunano tutti gli esseri viventi. Attendiamo nove mesi la nascita di un bambino; attendiamo la pace, il treno, il fidanzato all’aeroporto….Ma anche una rondine attende l’arrivo della primavera per tornare al nido e un cane aspetta fedelmente il ritorno a casa del padrone.
Vediamo insieme quattro elementi dell’attesa, che ritroviamo nella pratica e che possiamo portare nel nostro quotidiano.
- Attesa è saper guardare. Nella nostra lingua, “aspettare” deriva proprio dal saper guardare con attenzione. Quante cose vediamo ma non guardiamo? Quanto abbiamo educato la nostra attenzione? E non diteci che voi ripetete esattamente tutto quello che il Sensei vi mostra all’allenamento, perché non ci crediamo!
- Attesa è saper fermarsi. In Giapponese, “matsu” porta con sé il significato di fermarsi ben piantati per terra. Per concentrarsi bisogna saper rallentare, talvolta fermarsi. La nostra pratica è frenetica o sappiamo rallentare per coglierne i significati?
- Attesa è dare un senso ai vuoti. Come le sette note della musica, disposte con un alternanza di pause e di toni, danno vita ad infinite melodie, così i principi tecnici possono dare origine a infinite armonie nello scambio che avviene tra i praticanti. Ridurre la pratica all’esecuzione tecnica può essere necessario all’inizio, quando se ne impara la grammatica. O il solfeggio. Ma che cosa mettiamo tra un gesto e quello successivo, tra una parola e quella successiva, tra un keiko e quello successivo, fa la differenza della qualità del nostro percorso.
- Attesa è trovare quell’incontro che la fa cessare e creare le condizioni perché non si resti intrappolati nell’attesa stessa. Ci sono infiniti modi di autosabotarsi su questo tema. Dal non sentirsi mai pronti per un esame a non trovare mai la persona giusta. Dal riempirsi solo di letture e tutorial al non volere mai oltrepassare i confini del proprio Dojo. Dal pensare che siano gli altri a dovermi capire e aiutare a non lasciarsi mai avvicinare e modificare da qualcuno.
Si attende il Natale e si fanno i propositi per un anno nuovo. E ci si ritrova esattamente come prima.
Allora, più o meno con la primavera, arriva il tempo dei “fioretti” che infarciscono la Quaresima di altri propositi e buone azioni. Arriva Pasqua e poco dopo ci si ritrova come prima.
Allora ci si trascina verso la prova costume…E ci si ritrova alle grigliate di Ferragosto, rimandando alla ripresa di settembre quel “domani che diventa mai”.
Se dentro il tempo dell’attesa mettiamo solo noi, il tatami ci insegna che ci arriva un pugno o un fendente che ci piega in due mentre noi siamo ancora lì a pensare come potremmo riempire questa attesa.
L’attesa è dunque quello specchio che si apre verso un incontro che la sappia riempire di tutto ciò che da soli non riusciamo, ne riusciremmo mai a darci. Senza questa apertura anche il keiko più sudato finisce ad essere come quei fioretti fatti per forza e non per amore: una masochistica, colossale perdita di tempo.
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