Ti è mai capitato di prendere lo smartphone per controllare messaggi e aggiornamenti anche se non avevi ricevuto la notifica col relativo suono?
Ti è mai successo di aprire i programmi di messaggistica per verificare se il tuo messaggio fosse stato letto?
Di trovarti in ufficio, a casa, in auto, in viaggio, in vacanza, a scorrere il dito per lungo tempo e vedere post dietro post sui social network?
Se la risposta è sì (ed è sì, non mentire!), vuol dire che almeno una volta nella vita hai fatto esperienza della “paura di essere tagliati fuori”.
Nota con l’acronimo FoMO (Fear of Missing Out), è una sensazione che deriva da una reazione del nostro sistema di fronte all’esigenza di soddisfare il nostro bisogno di connessione nelle relazioni sociali.
Secondo la Teoria dell’Autodeterminazione (Deci e Ryan, 1985), il benessere psicofisico di una persona dipende dal soddisfacimento di tre bisogni di base. Il primo è un bisogno di competenze, cioè di essere capaci di agire con efficacia nella vita quotidiana. Il secondo è l’autonomia, che permette di dare forma alle iniziative personali. Il terzo è la necessità di essere in relazione con gli altri.
Internet e i social network hanno iperstimolato questo terzo bisogno, fornendo strumenti per essere sempre connessi.
Studio, lavoro, formazione: il centro della socializzazione e delle attività si sta spostando sempre più nella sfera digitale.
Dematerializzando la propria presenza in una cerchia di contatti, nasce così la paura di essere tagliati fuori. Perché c’è poco campo. Perché non mi hanno risposto. Perché non hanno messo un like, un cuore sotto il mio post. Perché ho pochi follower. Perché ho poche visualizzazioni.
Una paura che c’era ben prima di internet. Ma che adesso si è diffusa a macchia d’olio e non solo tra i più giovani.
A pensarci bene, la paura di essere tagliati fuori è uno dei motivi per cui una persona dovrebbe seguire le regole del gruppo di appartenenza. La sanzione prevista dalla violazione di un regolamento o di una legge si basa su questo meccanismo di dissuasione preventiva.
Succede ovunque. Succede anche in un Dojo? Certamente sì.
La pratica di una disciplina marziale può aiutare a far dissolvere la FoMO attraverso i piccoli grandi doni che porta con sé.
Allenarsi significa dover necessariamente spegnere il telefono e distaccarsi fisicamente da esso -o da un computer. E infatti il rimando più frequente dopo qualche tempo dedicato ad allenarsi è quello di aver acquisito maggior capacità di focalizzazione e di gestione del tempo e delle agende.
Frequentare un Dojo obbliga l’individuo a entrare in uno spazio di relazione fisica. Uno spazio in cui la pratica stessa esige il contatto fisico. Gli inevitabili imbarazzi iniziali e le rigidità, al pari dei movimenti non funzionali, sono l’esperienza comune del principiante. Ma anche le persone che si allenano da più tempo, portando sul tatami la loro esperienza di vita quotidiana compressa e contaminata anche dalla FoMO, possono scoprirsi rigide, disconnesse, distaccate.
In altri termini, l’eccessiva esposizione al virtuale rende paradossalmente innaturale l’esperienza del contatto fisico, l’utilizzo del corpo come strumento di espressione e di relazione. Perseverare in questa direzione porta però la persona a saper tracciare perimetri di relazione basati sulla propria partecipazione attiva e non stimolati dal timore dell’esclusione.
La pratica crea un percorso in cui gradualmente si apprendono nuove competenze. Le competenze acquisite consentono quindi una incrementale espressione di iniziative personali nello svolgimento di tecniche sempre più complesse. Il tutto si svolge in un ambiente di relazione in cui si condividono regole di ingaggio reciproco.
In altri termini, un percorso di disciplina, nel nostro caso: marziale, va ad attivare e riequilibrare le tre componenti dell’autorganizzazione citate in precedenza. Ottenendo, oltre agli altri effetti positivi, una maggiore consapevolezza che riduce l’esposizione alla paura di essere tagliati fuori indotta dal mondo virtuale.
Però. C’è sempre un però.
Come un frattale, i meccanismi che scatenano la FoMO possono insinuarsi nelle dinamiche di pratica.
Quante volte è capitato di andare ad allenarsi spinti più dal “dover esserci” che dal “voler esserci”?
Quante volte è successo di ricercare un consenso e un riconoscimento per il nostro ruolo? In altri termini, quante volte abbiamo cercato un “like” o un “cuore” sotto il nostro grado? Quante volte “il prossimo esame” è diventata l’unico nostro pensiero? Una vera e propria ossessione ben mascherata?
Quante volte abbiamo scambiato le competenze con l’autorità, equivocando così sul reale significato dello scambio durante la pratica? In altri termini: quante volte eravamo fisicamente connessi e sistematicamente disconnessi, non presenti, vuoti?
E’ mai successo?
Se la risposta è sì (ed è sì, non mentire!), non vuol dire che sei una brutta persona. Semplicemente che sei una persona come tutte le altre: in cammino su un sentiero che può aiutarti a far dissolvere le paure e a far fruttare bene il tempo dedicato alla pratica. Fai un breve check del modo con cui ti relazioni al tuo smartphone così come alla tua pratica e riparti da lì.
Questo ti servirà per mettere meglio a fuoco la paura di essere tagliati fuori, ad affrontarla e a farla scomparire. Soprattutto servirà per far emergere quel tipo di ansie e preoccupazioni che sono celate al di sotto di tale fenomeno. Ansie e preoccupazioni che limitano e frenano una piena realizzazione dei tuoi obiettivi e come parassiti si incrostano su comportamenti, espressioni ed abitudini.
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