Si dice “ninin dori” o “futari dori“?
Qualche anno fa, la commissione che presiedeva il mio esame mi ha chiesto di mostrare tecniche in “ninin dori”.
E fin qui, niente di strano. Se non fosse che, mentre io cominciavo a far andare i miei uke uno contro l’altro, i membri della commissione hanno iniziato a discutere vivacemente.
“Guarda che in Giapponese, non si dice ninin, si dice futari…”
“No! Si dice ninin!”
“Dicono tutti futari, per contare le persone…”
“Saito ha sempre detto ninin“.
Il siparietto è durato qualche minuto, consentendoci di rifiatare, visto che ci eravamo fermati e dal momento che nella foga della discussione, la commissione si era momentaneamente dimenticata di me (salvo poi chiedermi tutto da capo, ma questa è un’altra storia).
Ora, che le tecniche con due uke che simultaneamente afferrano tori si chiamino “ninin dori“, “futari dori“ o “Franco”, ai fini della corretta esecuzione tecnica poco importa.
Però è un fatto che la terminologia giapponese costituisca l’ossatura dello studio di una disciplina marziale. La terminologia porta con sé le caratteristiche della lingua giapponese e la lingua gli elementi della cultura e del modo di pensare del popolo che la parla.
Per tutti -e certamente per i primi anni- l’approccio alla terminologia coincide con un atto di fede. Ti dicono di contare in un certo modo; che le tecniche si chiamano così; che i principi si chiamano cosà…
Non ti poni nemmeno un dubbio sulla effettiva corrispondenza al vero. Ti fidi. Devi fidarti. Perché se da subito inizi a mettere in dubbio tutto, rimani fermo.
Di solito, soprattutto nelle realtà ancorate alla tradizione -qualunque cosa si intenda con questo termine- è frequente sentire anche degli spezzoni di frasi in giapponese (i kuden, i doka), citazioni assortite attribuite a questo o quel Sensei, dal Fondatore in poi.
Anche in questo caso, che strumenti ha un allievo, mediamente, per orientarsi? Soprattutto se è alle prime armi. Si fida, recepisce questi suoni nuovi e, in modo direttamente proporzionale alla passione che ci mette nella pratica e alla credibilità percepita del suo insegnante, a sua volta diventerà un ripetitore di quanto ha ascoltato e compreso.
E’ su queste fondamenta che si basa la tradizione.
Capita talvolta, specialmente dopo parecchi anni di pratica, che il desiderio di comprendere quanto ricevuto, muova il praticante verso uno studio della lingua giapponese.
Sono sempre più praticanti, che spesso hanno anche ruoli di insegnamento, che si affacciano a questo studio. E’ un trend che indica una curiosità sana -e anche il coraggio di voler rielaborare quanto si conosce sotto la nuova prospettiva che offre la cultura mediata dalla lingua giapponese.
Fin dalle prime lezioni si entra in un mondo in cui le regole sono relativamente poche, mentre compaiono numerosissime eccezioni che la nostra mente occidentale e logica fa molta fatica sia a comprendere sia a catalogare.
I classificatori, ad esempio. Contare un determinato numero di persone richiederà un classifcatore diverso, ad esempio, dal contare il medesimo numero di arance, che cambierà nel caso in cui si debbano contare fogli di carta…. E così via
E non basta, perché alcune famiglie di classificatori portano con sé forme arcaiche. Quindi, se dobbiamo contare una persona, diremo 一人 hitori, due 二人 futari, e da tre in poi, più o meno andrà tutto liscio con un san-nin, yo-nin, go-nin (三人,四人,五人).
E allora? Perché se devo contare due persone che fanno una presa devo dire ninin dori e non futari?
Se già futari è un’eccezione, ninin dori sarebbe l’eccezione dell’eccezione.
Siccome da bravi occidentali la confusione non ci piace più di tanto, perché sarebbe bello capirci qualcosa di più, abbiamo cercato un appiglio per poter rispondere alla domanda “Perché si dice ninin dori?”
Sia per un’esigenza nostra. Sia perché sarebbe bello poter rispondere con chiarezza ad una domanda di un compagno o di un allievo.
Così ci siamo armati di pazienza e una prima risposta l’abbiamo trovata a questo link. Ripubblichiamo la schermata qua di seguito
In sostanza questa “Roora” (Laura, che nel profilo dice di essere giapponese e che non è stato possibile contattare), sostiene che fino al 1973 in Giappone si dicesse solo “ninin”. Da lì in poi “futari” prese il sopravvento. Per quello che riguarda noi, che pratichiamo una disciplina fondata non molti decenni fa, questa spiegazione fornisce un’immagine suggestiva. Il ragionamento sarebbe: siccome “ninin dori” è una tecnica categorizzata nell’insegnamento di Saito Sensei e siccome “ninin” è una voce un po’ attempata, allora questo sarebbe l’ennesimo tassello che proverebbe che Saito Sensei non abbia fatto altro che tramandare esattamente quanto ha sentito e visto direttamente da Morihei Ueshiba. Anziano il fondatore, agée il linguaggio: evviva! Stiamo praticando l’Aikido originale!
Ma poteva bastare questa risposta? No.
Così abbiamo chiesto alla nostra insegnante di Giapponese, la prof. Aya Nakata, docente all’Università degli Studi di Torino e presso l’Associazione Sakura, maggiori lumi e un suo parere.
La risposta, rigorosa nel verificare le fonti, ha confermato che “futari” fosse una forma presente nei testi dell’epoca Nara (710-784 d.C.). Peccato! Il film mentale che ci eravamo fatti grazie alla precedente interpretazione si sgretolava miseramente.
Ma allora perché?
Perché semplicemente, citando la professoressa, l’ambiguità della lettura del Giapponese è “una delle parti più difficili della lingua giapponese…anche tra i Giapponesi”.
Facciamo degli esempi.
Per esempio, 二人乗り (due posti/biposto) si può leggere sia 「ふたりのり」futari-nori che 「ににんのり」 ninin-nori.
Oppure「二人組」(a coppie) si può leggere「ふたりぐみ」futari-gumi o 「ににんぐみ」ninin-gumi.
Mentre, per esempio 二人三脚 (a tre zampe) si deve leggere per forza 「ににんさんきゃく」ninin-sankyaku.
E con il disarmante ed elegante sorriso tipico di una persona di cultura, Aya Sensei conclude:
“Purtroppo se lo sai, lo sai e se non lo sai, non lo sai…”
Quindi, perché si dice “ninin dori“? Perché si dice così, punto e basta. Verosimilmente è per dare enfasi alla enumerazione della modalità di esecuzione della presa. Ma è una teoria.
Rimane il fatto che l’approccio con la lingua e la cultura giapponesi consente di entrare un po’ più a contatto con un sentire molto profondo e molto diverso dal nostro. Quasi complementare.
Un mondo dove il “si fa così perché è così” è ancora un pilastro importante della didattica che convive con infinite eccezioni e sfumature.
Come accogliere tutto ciò nella nostra pratica? Con la consapevolezza che il “si fa così perché si fa così” non significa dover fotocopiare e ripetere a pappagallo anche intere frasi se non le si comprendono (e talvolta pronunciano) in modo corretto. C’è un che di commovente nel vedere la tradizione propagarsi. Ma a quali condizioni il telefono senza fili assolve il suo compito di strumento di comunicazione fedele?
Nell’esperienza comune la differenza tra quanto effettivamente detto e quanto riportato è ampia. Figuriamoci se poi c’è di mezzo una lingua straniera particolarmente problematica come il giapponese.
Una maggior consapevolezza sul significato delle parole, dei verbi, delle frasi che sentiamo e che a nostra volta riportiamo, può davvero donare una prospettiva di maggiore freschezza alla pratica stessa. Meno dogmatica, più viva. Meno dipendente dall’ansia di diventare il clone dei nostri maestri, più incline a capire che cosa stia dicendo a ciascuno dei presenti quel termine, quel movimento, quella prospettiva.
Ecco perché a volte ha senso fermarsi durante il proprio esame per sentire discutere la commissione su “ninin” e “futari”.
Credits: photo courtesy Eleonora Rescigno, Fabio Berta, Hara Kai Dojo