Fare bene. Fare male.
Dietro e dentro le parole si apre un mondo. Un mondo fatto di atteggiamenti, azioni, visioni del mondo. Un mondo fatto di enormi possibilità e di altrettanto enormi fraintendimenti.
Nel mondo delle Arti Marziali, così come nel più vasto mondo delle attività umane, siamo tutti testimoni di due realtà estreme. Da un lato i “duri e puri“, dall’altro gli ipersensibili.
Ognuno di noi potrebbe fare un identikit, assegnando ai “duri e puri” nomi, cognomi, facce, gruppi ed organizzazioni. E’ così facile etichettare gli altri!
Una cosa hanno di particolare i duri e puri. Non solo sono convinti di essere depositari dell’unico modo corretto di praticare, grazie alla divina visione ricevuta nello spogliatoio del loro Dojo nel 3489 a.C. dal loro caposcuola. O dal soke. O da Bruce Lee dopo l’impepata di cozze. Solitamente sono persone contraddistinte da una pratica molto fisica.
Quel tipo di persone che viene alle manifestazioni o agli allenamenti o alle prove e la prima cosa che ti dicono è che per loro la pratica è “tirare”. Poco importa se a dirtelo è una persona che torna sul tatami dopo trent’anni di inattività fisica.
Gli ipersensibili, d’altro canto, sembrano vivere evitando ogni asperità ed ogni conflitto. Provano di solito un ribrezzo nei confronti dell’uso della forza e amano tantissimo una modalità di pratica a basso impatto fisico e ad alto impatto emotivo.
Quel tipo di persone che prima o poi impara a maneggiare qualche leva articolare. E che una sera o l’altra, durante l’allenamento, devasta un’articolazione.
Persone spesso inclini a sviluppare una sorta di calma apparente solo per incapacità di riuscire a esprimere verbalmente e fisicamente un proprio punto di vista.
In questi due estremi e in mezzo ad essi troviamo l’intero campionario di esseri umani. Tutti, in qualche modo, abbiamo fatto il pendolo tra queste polarità.
Succede quindi che nell’ansia di svolgere l’esercizio “bene”, si perda di vista il principio di integrità e si faccia “male” al proprio compagno di pratica. Quante volte ci è successo, in questi casi, di sentire la frase di autoassoluzione: “In fondo pratichiamo un’Arte Marziale”? Come se bastasse scopare sotto il tappeto marziale la responsabilità di usare le proprie competenze per fare un cammino di crescita personale con l’altro e non a discapito dell’altro.
Succede anche che nell’ansia di non scoprire mai che cosa vuol dire usare la nostra forza e incanalare in una tecnica l’aggressività, con la scusa di non voler fare “male” a qualcuno, facciamo di tutto. Fuorché fare del bene a noi. Scegliamo di tarparci le ali. Preferiamo spesso non vedere che la nostra immagine sociale stride con quel “coso” che ogni tanto emerge nel nostro sistema e che vorrebbe piegare al contrario il gomito di chi ha di fronte, senza sapere nemmeno il perché.
Gli estremi sono pericolosi, come lo è la mediocrità.
Il machismo da dojo è pericolosamente limitato a creare ridicoli funamboli da palestra. Residui del medio evo giapponese, che se è mai esistito non aveva certamente le sembianze di dignitosi impiegati di mezza età che per qualche ora a settimana si assicurano, vantandosene, dosi di antinfiammatori.
Il perbenismo pseudopacifista è drammaticamente uno specchio di una cultura di massa che alimenta l’inerzia e il non prendere posizione. Perennemente esposto al bipolarismo passivo-aggressivo, porta alla ricerca della chimera dell’inclusione, impossibile da raggiungere se non si definisce prima di tutto chi siamo realmente.
Nel mezzo, può divampare quella mediocrità, che può fraintendere le finalità di una disciplina. Che non sono esclusivamente quelle di far passare qualche ora serena a un po’ di persone vestite col gi. Quanti gruppi in fondo vanno avanti per consuetudine, privi di “perché” vivi? Se guardiamo gli effetti della pandemia e della crisi, possiamo vedere quanti “perché” siano stati sgretolati.
Fare bene o fare male?
Certamente bisogna avere il coraggio di fare “il” bene. Se la chiamiamo “disciplina” e se le neghiamo la possibilità di fare “il” bene di chi la pratica, la stiamo tradendo.
Nell’Aikido, Morihei Ueshiba aveva intuito che la forma più alta di Budo fosse in qualche modo utilizzare determinati strumenti per costruire il bene. Una pratica fisica, certo. Ma orientata a costruire quel tipo di guerriero che solo se si eleva ad essere spirituale, sebbene profondamente incarnato, può costruire quel sogno che chiamiamo Pace.
Fare “il” bene apre ai “duri e puri” la possibilità di vedere che cosa ci sia oltre la dimensione fisica e le botte da orbi. Apre a comprendere l’esistenza di una pluralità di visioni.
Fare “il” bene apre agli ipersensibili la porta del coraggio di guardare a se stessi e ai cliché che usiamo per convincerci di essere a posto con la nostra coscienza. Dà il coraggio del cambiamento e ispira l’azione. Ci fa uscire dal nostro pensiero e, a partire dal contatto con altre persone, ci fa letteralmente sporcare le mani. Ci rende più umani.
Fare “il” bene, dissolve la mediocrità e rende persone migliori.
Cercare nella pratica di fare bene, facendo “il” bene è forse il vero obiettivo del Budo.
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