Si può allenare l’intuito?
La razionalità che dà struttura ad un allenamento tecnico può supportare l’intuito, che razionale e logico non è?
In Giapponese l’intuito è chokkan ed è rappresentato da due kanji che hanno tante cose in comune con i praticanti di Arti Marziali, soprattutto di Aikido: 直感
Il primo è choku, 直, che significa diretto, immediato. Come choku tsuki, il primo suburi di jo, che diventa diretto e immediato dopo giusto qualche migliaio di ripetizioni…
Nel secondo kanji, kan, (感, sentimento) ci sono elementi con cui chiunque frequenti un Dojo ha qualche familiarità. Nelle sue componenti vediamo i tratti – e 口, che sono le componenti dell’ ai di Aikido (合).
Sulla destra troviamo l’immancabile alabarda (戈) che ritroviamo in scritte come bushido (武士道 ) o takemusu Aiki (武産合氣).
Al fondo del kanji troviamo kokoro (心), il cuore.
Frullando tutte queste componenti, viene fuori il significato di sentimento. A chi non verrebbe in mente questo termine unendo un’alabarda, un cuore, una bocca e qualche altro segno grafico?
Un sentimento diretto, immediato: ecco che cos’è l’intuizione.
La comune esperienza insegna che non tutte le intuizioni sono felici. E che a volte prendiamo delle belle cantonate.
D’altro canto, molto spesso le più belle conquiste derivano da una serie di azioni (razionali) che hanno la loro origine in una intuizione, in un sentimento così preciso che era quasi impossibile non ubbidirgli, per quanto poco logico.
Usare una disciplina marziale significa avere il privilegio di allenare la parte choku, tutto ciò che è diretto.
Gli attacchi -le prese come i fendenti e così le percussioni- sono codificati. E sono codificate le tecniche. Esiste una didattica che predispone il praticante a ricevere l’iniziativa del compagno.
Nei primi tempi, quando uno è un principiante perché ha iniziato da poco o sta studiando nuove forme, avvengono strani fenomeni.
Ad esempio succede che, in modo completamente intuitivo, quando eseguiamo alcune tecniche, di per sé complesse e appartenenti al repertorio di gradi molto avanzati, riescano meglio di tecniche più semplici, che ci bloccano totalmente.
Succede anche, talvolta, che mentre riceviamo altre tecniche, il nostro corpo collassi a terra ben prima che il nostro compagno ci conduca; altre volte ci congeliamo in posizioni statiche nonostante leve articolari potenti ci segnalino che è meglio cedere. Altre volte ancora il nostro corpo si muove senza alcun impulso ricevuto e si pone in condizioni di leva, col risultato di farci male letteralmente da soli. Altre volte ancora, infine, siamo convinti di avere, per esempio, il piede destro avanzato, quando invece è il contrario.
E’ un paradosso: si deve passare dalla tecnica per ripristinare la capacità di un movimento libero, diretto, intuitivo.
A pensarci bene, non può esistere libertà senza consapevolezza: lo dimostra la condizione della società in cui viviamo.
Lo stesso vale in un percorso di crescita personale supportato da una disciplina. Si parte da uno stato privo di forma, col corpo che non sa che cosa fare né come comportarsi.
Gradualmente l’allenamento formale costruisce una struttura con degli snodi in cui la crescente consapevolezza mostra la possibilità o l’impossibilità di concludere o ricevere una tecnica. E’ quel periodo di apprendistato in cui i vuoti di consapevolezza emergono anche sotto forma di piccoli infortuni. Tutti ne farebbero volentieri a meno ma a volte un livido è l’insegnante definitivo per imparare come muovere il corpo.
Si arriva infine a un bivio. Molto spesso, dopo anni di pratica, si scivola lentamente nell’automatismo tecnico. Da fuori può sembrare meraviglioso e anche il massimo della spontaneità, quando piuttosto è il contrario.
L’automatismo è il controllo di un’alberatura molto ramificata di se…allora. Per certi versi è il prodotto che certifica la bontà di una metodologia didattica, che riesce ad addestrare quasi alla perfezione chi vi si dedica.
Ma è questo che vogliamo? Essere addestrati?
Il 99,9% di noi sarà convinto di non appartenere a questa categoria. Problemi e difetti appartengono sempre agli altri.
L’intuizione allenata non si basa sul “se…allora” ma sul “quando“. E’ una consapevolezza allenata a rimanere perennemente vigile, pronta all’azione. Una vigilanza rilassata (zanshin) in ascolto di quello che c’è: il presente che fluisce.
La spontaneità intuitiva crea in questo modo le forme attraverso la relazione (takemusu Aiki). E’ quanto si vede quando ci sono due praticanti molto esperti che dialogano attraverso i loro scambi.
Ed è quello che tutti i grandi esperti testimoniano: alla fine -ma solo alla fine- la forma non è più importante.
Come si fa ad arrivare lì?
Armandosi di tanta pazienza e imparare che quando il mio compagno sporge la mano in un determinato modo, io devo prenderlo così e non cosà.
Che quando ricevo uno sbilanciamento ed una sollecitazione devo lasciar andare il mio corpo, e così via.
Riuscirà questo processo a portare dei frutti nell’allenamento dell’intuizione anche “fuori” dal tatami?
Siamo convinti di sì: in fondo se accettiamo di rimappare le nostre abitudini motorie, perché non provare a rimappare le nostre attitudini e le nostre abitudini?
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