Uno dei tanti aspetti che colpisce chi visita il Giappone è vedere tantissimi anziani occupati nelle attività più disparate. Chi, come da noi, sorveglia l’incrocio per garantire l’incolumità dei bambini che attraversano. Chi spazza dalle foglie il piazzale antistante un tempio. Chi si dedica a curare le piante nei vasi che abbelliscono i vialetti presso il proprio condominio…
Non è soltanto una questione legata all’invecchiamento della popolazione o a un sistema pensionistico non esattamente florido. Nella mentalità giapponese il concetto di ritirarsi, magari dal lavoro, non coincide con l’idea di cessare l’impegno in una o più attività.
“La felicità di essere sempre indaffarati” può essere una buona approssimazione della traduzione letterale del termine ikigai 生き甲斐, che viene tradotto generalmente come una “ragione per vivere”.
Il legame tra la longevità e lo stile di vita è un tema cha ha attratto tanti studiosi, tra cui Dan Buettner, un giornalista del National Geographic. La sua ricerca ha identificato cinque “zone blu” in cui il numero di centenari, la loro salute e la qualità della loro vita suggeriscono che quel legame sia qualcosa di profondo e reale.
Dopo la sua conferenza al TED in Minnesota nel 2009, in cui il concetto veniva usato per spiegare il fenomeno della longevità a Okinawa, il temine ikigai ha letteralmente invaso il mondo occidentale.
Un mondo che oggettivamente fatica a trovare una sua identità e quindi uno scopo per cui valga la pena alzarsi dal letto ogni mattina.
Per declinare nella cultura occidentale un concetto radicato nell’essenza della vita giapponese, un consulente britannico, Mark Winn, ha elaborato il seguente diagramma:
Secondo questo approccio, un’attività che vada a bilanciare ciò che sappiamo fare con ciò che è utile agli altri; ciò che amiamo fare con ciò per cui altri sono disposti a pagarci, sarebbe un’attività per cui valga la pena alzarci dal letto ogni mattina.
Un’attività che è la convergenza della consapevolezza di ciò che davvero ci appassiona, che mette in luce ciò che siamo chiamati a realizzare nella nostra vita, attraverso una professione.
L’accento messo sull’aspetto economico è forte; del resto è pur vero che l’attività per cui ciascuno di noi provvede sostentamento a sé e agli altri è qualcosa che assorbe energie tempo e risore per gran parte della nostra vita.
C’è però qualcosa di più. Il lavoro è una parte, preponderante ma non totale della vita. E se ikigai è un principio, deve valere anche se lo si applica a qualsiasi altro contesto.
Che cosa succede se applichiamo questo schema ad una disciplina marziale come l’Aikido? Vediamo insieme come si modifica lo schema:
Ognuno di noi sale per la prima volta sul tatami portando con sé quello che riesce a fare. C’è chi ha già competenze motorie ben sviluppate, c’è chi ha una buona capacità di apprendimento mnemonica, c’è chi sa pazientemente dedicarsi alla pratica, c’è chi ha una sana ambizione a migliorarsi… Lo schema dell’ikigai applicato all’Aikido ci dice che ogni praticante ha, fin dall’inizio, delle competenze. Ogni praticante, in qualcosa, è già “bravo”.
Per contro, il programma tecnico, rappresenta un primo orizzonte di ciò di cui c’è bisogno. Occorre sviluppare competenze fisiche e tecniche, che richiedono tempo e, nell’eterno ponte tra ciò che siamo capaci di fare già e ciò che non siamo ancora in grado di compiere, si trova la tensione evolutiva in cui si colloca una disciplina, che non a caso nella cultura giapponese si identifica col cammino, il do 道,appunto.
Le inclinazioni personali con cui ci approcciamo alla pratica rappresentano una polarità che dà, nel tempo, la personalizzazione al modo stesso di praticare. Se noi amiamo l’aspetto agonistico, la pratica avrà una dimensione molto fisica. Se amiamo l’aspetto introspettivo, la disciplina porterà a forme di pratica più legate alla scoperta del ki 氣. Se per noi l’aspetto relazionale e il rispetto sono la priorità, la pratica prenderà forme maggiormente inclini allo studio della connessione.
Nella pratica di una disciplina marziale -e visti i tre centesimi che girano nell’Aikido, a maggior ragione- ci sembra poco reale parlare di “ciò per cui gli altri sono disposti a pagare”. Qui la rappresentazione occidentale dell’ikigai vacilla pericolosamente. Occorre rigirare la frase e reintrodurre quel senso di gratuità e di restituzione alla comunità di appartenenza che si tocca con mano nel vedere la laboriosità che tanto colpisce negli anziani giapponesi.
Che cosa siamo davvero disposti a cedere e a restituire? E’ più facile e sbrigativo tirare fuori dal portafoglio dei soldi che lasciar andare qualcosa di noi.
Se guardiamo alla nostra storia, così come se guardiamo mediamente un principiante, vediamo da un lato un grande entusiasmo ma anche l’imbarazzo di non sapere bene come orientarsi, agli inizi. Bolle umane, mondi isolati che hanno bisogno di tempo per sentirsi parte di un gruppo che cammina (o dovrebbe camminare) nella stessa direzione.
Ciò che ci appassiona dirige l’utilizzo di ciò che ci piace e ciò che siamo capaci a fare. Ed è qualcosa di dinamico nel tempo. Da bambini ci appassiona giocare con i Lego. Da grandi ci appassiona realizzare qualcosa di più ampio di un gioco. Non è la passione a cambiare, sono la nostra esperienza e consapevolezza che, mattone dopo mattone, rendono il gioco più ampio. E così è anche in una disciplina.
Ciò che amiamo viene in qualche modo incorniciato dalle regole grammaticali della lingua che usiamo per esprimerlo. Questo è il significato reale del programma tecnico. In questo modo la missione è quella di esplorare il programma tecnico, esame dopo esame, per poter dotarci di un linguaggio consapevole per esprimere ciò che amiamo e ciò che sappiamo fare.
Se io sono disposto a dare delle parti di me in modo libero e gratuito a questo processo, posso comprendere meglio che cosa sono chiamato a diventare. Si pensa in generale che parlare di vocazione significhi parlare di rinunce. Quindi, di solito, è un tema su cui si sorvola spesso. Si preferisce parlare di professione, perché sembra essere una dimensione in cui la scelta ha il carattere vincente di imporre ciò che vogliamo essere nel mondo. E, in effetti, professione letteralmente vuol dire proprio “ciò che diciamo di essere”.
Già, ma chi siamo?
Una disciplina ha come obiettivo dichiarato la progressione e lo sviluppo dell’essere umano, in una dimensione contemporaneamente singola (il praticante) e di gruppo (il Dojo). Chi è passato prima su questo percorso (il sensei) dovrebbe avere chiaro che il suo essere guida, attraverso la tecnica, serve a sviluppare nelle persone quel livello di consapevolezza che distingue chi crediamo (e diciamo) di essere da chi veramente siamo. Questo è il senso delle tante frustrazioni che nascono tra il pensare di essere capaci a fare qualcosa che abbiamo capito e il non saperlo ancora eseguire.
Proprio perché ci è passato prima di noi, il sensei vede con più chiarezza quali siano i limiti -attitudinali, caratteriali, relazionali, tecnici e infine fisici- su cui dobbiamo realmente lavorare. Non per diventare delle belle statuine della sua collezione ma per far emergere la versione migliore di noi, quella che spesso si nasconde dietro le nostre posizioni parziali eppure assolute. Le nostre paure. Quei difetti che di noi tanto detestiamo da odiarli negli altri.
Nello sviluppare pazientemente le due polarità, attive e ricettive, in tori e uke, l’Aikido abitua il praticante a capire là dove più deve investire energie per diventare ciò che non è ancora e per mettere a servizio di se stesso e degli altri ciò che già è.
Scoprire di essere chiamati ad essere più empatici, più focalizzati, più decisi, più compassionevoli, più veri, più attivi… Tutto ciò svela la vera identità del nostro io ed è uno dei motivi per cui l’ikigai viene scoperto e potenziato da una disciplina.
Scoprire che la nostra “zona blu“, la nostra ragion d’essere, non si trova necessariamente a Okinawa, in Costa Rica, in California, in Grecia o in Sardegna (per quanto diciamo che vivere, lavorare e praticare in posti incantevoli male non farebbe…), come dicono i ricercatori, ma che si può ricreare nel quadrato di un tatami, è una rivoluzione.
E’ riscopire di essere vivi.
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