La narrazione dell’Aikido e i suoi spettri

In mezzo ad altre pregevoli iniziative nel mondo editoriale, la Cardiff University Press si distingue per dare spazio alla Martial Arts Studies, una rivista on-line esclusivamente dedicata agli studi e alle pubblicazioni accademiche relative al mondo delle Arti Marziali.

A luglio scorso è stata pubblicato un contributo di Greet De Baets, docente e ricercatrice di comunicazione aziendale all’Università di Gand, in Belgio. Fin dal titolo, l’articolo ha catturato la nostra attenzione: Je Suis Pas Tatamisé: Five Spectrums of Variation in the Narratives of 20 Aikido Experts Worldwide in 2020.

Il profilo della professoressa è interessante, perché la sua attività di ricerca mira a dare un senso alla formazione in comunicazione aziendale interculturale basandosi sull’Aikido, come metodo didattico e pedagogico incarnato.

L’articolo non è da meno perché consente una contestualizzazione dell’Aikido e delle Arti Marziali secondo criteri propri delle scienze sociali e offre così prospettive interessanti e domande molto intelligenti, che portano a conclusioni su cui è bene soffermarsi.

Citando gli studi di Sixt Wetzler, ricorda che in genere una persona trova una dimensione di senso della pratica delle Arti Marziali in uno o più tra cinque ambiti principali: l’addestramento ad un conflitto violento, competizione sportiva e gioco, performance, finalità trascendenti e un certo salutismo.

E già questa prima indicazione merita di essere considerata: in modo più o meno consapevole, una persona si avvicina al mondo delle Arti Marziali perché spinta da un mix di questi elementi -ed un istruttore deve esserne conscio.

Ma la De Baets va oltre. Dal punto di vista antropologico, occorre aggiungere un’attenta analisi di come fattori quali tempo, luogo, cultura, identità, reputazione e motivazione facciano emergere nuovi significati alla pratica di una disciplina come l’Aikido.

La ricercatrice infatti si pone di fronte alla fenomenologia dell’Aikido a oltre cinquant’anni dalla morte del suo fondatore e si chiede: qual è il significato dell’Aikido, oggi?

Una domanda tutt’altro che banale e, con le lenti della ricerca, molto interessante. Infatti, intervistando un campione di praticanti di grado elevato, rappresentativi dei vari stili di Aikido e dei diversi continenti, la ricercatrice belga arriva al nocciolo della questione.

Rispetto all’Aikido, ci sono tante narrazioni quanti sono gli esperti intervistati. Sebbene sia chiaro che alla radice ci sia qualcosa di unitario, che possiamo definire Aikido, le differenti esperienze, prospettive e l’unicità degli interessi personali, portano a un oggetto che è definito ancora come Aikido. Oggetto che è nettamente divergente rispetto alle altre narrazioni che conducono al medesimo risultato.

Usando le parole di Greet De Baets: un unico linguaggio con tanti dialetti.

La ricerca giunge a identificare cinque spettri trasversali alla pratica dell’Aikido. Cinque elementi che sono comuni a qualsiasi narrazione. Cinque strutture fondamentali di un linguaggio che si è evoluto (o imbastardito?) in una pletora di dialetti.

La dimensione fisica della pratica. La pratica ha uno spettro che va da una modalità delicata alla pratica dura, violenta ed estenuante.

La motivazione. Nella narrazione degli intervistati, si è spaziato da un estremo dello spettro, rappresentato dalla ricerca di una metodologia di difesa personale all’altro estremo, dato da esigenze di evoluzione personale.

Impatto sociale. Per alcuni intervistati, la pratica dell’Aikido può servire per contrastare la violenza nella società, mentre per altri può avere applicazioni molto più ampie.

Valori tangibili. La ricerca ha evidenziato come in parecchi casi la pratica continua dell’Aikido abbia portato ad una narrazione aperta ad un processo di “giapponesizzazione” incrementale, che ha una fenomenologia variegata. Dallo studio della lingua e della cultura giapponesi all’acquisto di abbigliamento e arredamento di ispirazione giapponese; dall’esigenza di trascorrere periodi di studio o addirittura di trasferirsi in Giappone a tatuarsi kanji e quant’altro addosso… L’estremo opposto dello spettro è rimanere “non tatamato”, come suggerisce il titolo dello studio. Darsi alla pratica rimanendo impermeabile all’influsso tangibile della cultura in cui è nato l’Aikido.

Valori intangibili. Il paragrafo più denso dello studio è dedicato ai valori intangibili. Per alcuni l’Aikido è una religione, per altri un surrogato di una pratica religiosa. All’opposto, per altri, la corretta pratica dell’Aikido non deve prevedere la benché minima prospettiva spirituale.

E’ un terreno molto scivoloso, perché, come riporta la ricercatrice, l’Aikido affonda le sue origini in un mix antropologico, culturale, filosofico, spirituale e religioso che ha sfumature di Buddismo, Shintoismo, Confucianesimo e Taoismo, in cui, aggiungiamo, non va dimenticata l’influenza dell’Oomoto-Kyo nell’esperienza vissuta da Ueshiba.

E’ qualcosa che è già complesso provare a conoscere dal punto di vista intellettivo, di puro studio. Ed è ancora più complesso provare a percepire e a, letteralmente, “com-prendere”.

Il risultato, piuttosto scontato, è che quanto è complesso comprendere finisce con l’essere preso e basta, quasi acriticamente. La ricercatrice riporta a questo proposito un’intervista ad un praticante a cui chiede quale sia la meditazione corretta, ricevendo in risposta un “Non te lo dico ma ad ogni modo il centro della meditazione è Buddha”…

Su ciò che è intangibile probabilmente si consuma la maggiore derivazione dalla radice originaria dell’Aikido e si incarna, di riflesso, la più estrema delle caratterizzazioni. Così si arriva per alcuni a definire Aikido ciò che è “peace and love” e per altri, che dicono con la medesima convinzione di praticare Aikido, a rigettare la dimensione “peace and love”, sottolineando la necessità di una pratica puramente e duramente fisica.

Allo stesso modo, si disserta sull’intangibile ki come se fosse tangibile, arrivando a proporre esercizi fisici per sviluppare ciò che fisico non è e, al contempo, esistono gruppi in cui la dimensione sottile è totalmente ignorata, relegandola esclusivamente nel vissuto di O’Sensei.

Ancora: esistono gruppi che conosciamo dove per regolamento interno è proibito parlare di argomenti che possano anche semplicemente rimandare a tematiche di tipo religioso ed esistono gruppi che nascono all’interno di realtà di ispirazione religiosa. E ancora, esistono diversi gruppi che sono strutturati nelle relazioni e nelle prospettive della pratica dettate dai loro referenti alla stregua di piccoli clan o sette.

Che dire?

Più un diamante è sfaccettato, meglio brilla ma mai di luce propria. Avere tanti “Aikido” quante sono le narrazioni, non è necessariamente un problema. Per certi versi è un arricchimento, perché i rami floridi non hanno a temere eventuali derive involute. Anzi: se volessimo proprio fidarci dell’essere umano, dovremmo prima o poi ammettere che un’ampia gamma di possibilità rende maggiormente manifeste le proposte di valore.

E’ altrettanto vero che questo presuppone una capacità di discernimento che non sempre è così sviluppata. E questo perché, come detto all’inizio, alla fine ci siamo iscritti tutti a un corso di Arti Marziali, per quanto di Aikido, attratti dalla voglia di imparare a difendersi, dal gareggiare, dal voler stare bene e solo in minima parte da ideali “più nobili” (qualunque cosa voglia dire).

In questo contesto può non essere così facile rendersi conto in tempo di essere finiti in un ambiente disfunzionale o perlomeno confusionario.

La libertà è un bene troppo prezioso per pensare che il problema di troppe narrazioni parallele debba essere risolto. E meno che mai mettendo il bavaglio a chicchessia.

Allo stesso tempo, ricerche come questa sono uno stimolo, per tutti, per porsi in una dimensione di pratica seria, quantomeno dal punto di vista filologico e tecnico.

Non smettere di chiedere e chiedersi il perché vincola studente e istruttore a non accontentarsi di ripetere una storia ascoltata da altri ma di fare propri gli insegnamenti e trasmettere a propria volta ciò che ha un senso compiuto.

Allora il numero dei dialetti potrà ridursi e potrà esserci maggiore comprensione, seppure riconoscendo dal tono della voce, la provenienza di ciascuno, con dentro la sua storia.

Disclaimer: foto di Dobromir Hristov da Pexels

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