La pratica costante e incrementale di una disciplina è un alleato della nostra crescita e del nostro benessere? O è esattamente il contrario?
Dipende.
Per provare a tracciare una risposta, bisogna guardare a come funziona il nostro sistema.
Piacere e ricompensa
Il nostro sistema è talmente ben fatto che rilascia dopamina al verificarsi di eventi che percepisce come positivi. L’attivazione dei meccanismi della gratificazione ci spinge -per esempio- verso una buona alimentazione, la cura di sé, la sessualità all’interno di una relazione stabile.
Pensiamo a come abbiamo iniziato il nostro percorso di pratica. C’è chi si è affacciato al Dojo perché si annoiava nel tempo libero, chi si sentiva insoddisfatto, chi voleva fare attività fisica per star bene, chi voleva imparare a difendersi, chi si sentiva solo e voleva incontrare altre persone…
All’inizio di tutto c’è una sorta di regolazione emotiva. Il nostro mondo interno ci manda dei segnali -emotivi- ai quali rispondiamo con le nostre azioni e coi nostri pensieri. Mi sento insicuro? Vado a iscrivermi al corso picchiaduro della palestra sotto casa.
Una volta varcate le soglie del Dojo, si fa esperienza di una prima fase in cui è la curiosità a farla da padrona. E’ tutto nuovo, spesso anche nebuloso. Non appena il nostro sistema riconosce la decisione di praticare come qualcosa di positivo, ecco che il meccanismo di ricompensa del nostro sistema neurale inizia a riversare dopamina.
Stiamo bene. Siamo contenti. Parliamo con tutti di quello che facciamo. E’ la Luna di Miele con la pratica.
Il sistema di ricompensa ci spinge quindi a instaurare un’abitudine costante. Del resto mangiamo, con piacere, perché serve per vivere. Così come serve per propagare la specie fare altre cose che proprio sgradevoli non sono.
Ed è qui che si arriva al bivio.
Dalla sana abitudine alla dipendenza
Un confine molto labile che separa una disciplina per l’essere umano da una dipendenza distruttiva.
Tutte le dipendenze sono di fatto abitudini radicate e nate da regolazioni emotive evidentemente errate che spingono le persone a cercare la soluzione di stati di malessere in scariche sempre più frequenti di dopamina. Un sistema di ricompensa che per dosi sempre più piccole di piacere viene alimentato da dosi massicce di sostanze o di stimoli sensoriali.
Il fenomeno della dipendenza è così vasto che è sotto gli occhi di tutti. In forme che non hanno soltanto l’aspetto tragico della tossicodipendenza, dell’alcolismo o della ludopatia. E’ un fenomeno che sa strisciare silenziosamente, dall’eccessivo attaccamento al lavoro alle molte forme di sregolatezza nel campo della sessualità. Passando attraverso le infinite piccole e grandi manie di cui è punteggiata l’esistenza.
Un fenomeno che anziché risolvere gli stati emotivi, li esaspera, amplificando ansia, senso di inadeguatezza e stati depressivi.
Un insieme di scelte che isola socialmente la persona, che non prova più stimoli, né piacere, né senso in altro. Del resto, come potrebbe? Il nostro sistema nervoso per reggere al flusso di dopamina, in qualche modo ne depotenzia i ricettori. La musica che prima si ascoltava con piacere, non interessa più. Gli amici, la famiglia, perdono di attrazione. Gli interessi di prima sono abbandonati.
Budo-dipendenza
Succede anche con una disciplina marziale?
Potrebbe. Probabilmente succede più spesso di quanto si pensi.
E’ qualcosa che dà una ricompensa tutto sommato immediata. Costruisce una “società dentro la società”, in cui poter rimappare la percezione del proprio valore in modo diverso da come siamo visti fuori dal Dojo, nel nostro quotidiano. Al netto di infortuni, il corpo riscopre movimenti che non si pensava nemmeno di poter eseguire e, nel medio periodo, vive una sensazione di benessere. Il praticante medio arriva stanco sul tatami e ne esce energizzato. E’ un’esperienza comune.
Ci sono infiniti elementi che oggettivamente ci dicono che il circuito della gratificazione viene ampiamente attivato dalla pratica di una disciplina marziale.
E che spiegano perché generalmente il praticante aumenti le dosi che si somministra.
Siamo budodipendenti, allora? O siamo la reincarnazione dei monaci guerrieri più puri?
Crediamo sia necessario mettere allo specchio la propria giornata e valutare i cambiamenti che comunque le abitudini sul tatami hanno portato alla nostra esistenza.
Siamo sereni? Siamo felici di ciò che facciamo? Le nostre relazioni si riducono o fioriscono?
Riusciamo a stare dentro i nostri impegni o li riduciamo, rifugiandoci nella dimensione del Dojo come se fosse un mondo parallelo?
Tutti conosciamo persone che, dopo anni di pratica, sembrano spente. Tutti abbiamo compagni che in vista di un esame vanno in un vero e proprio stato di ossessione che travolge tutto e tutti. Tutti conosciamo praticanti che, come fosse una crisi di astinenza, si allenerebbero mattino e sera a Natale e Pasqua.
Fortunatamente, tutti conosciamo persone che, dopo una vita di pratica, sembrano un fuoco sereno sempre acceso. Persone che nei vari aspetti della vita irradiano quei valori e quella serenità che apparentemente tutti ricerchiamo (anche) nella pratica.
Qual è il segreto?
Vigilare sul rischio della dipendenza sicuramente serve ma occorre dotarsi di qualche strumento.
Crediamo che il primo strumento sia contrastare l’isolamento sociale, che è uno dei segni più evidenti della dipendenza da un’abitudine. Uscire dalla propria cerchia e partecipare a stage permette al praticante di rimanere nell’ambito dell’abitudine e di riconsiderarla attraverso altre prospettive.
Un Dojo, un gruppo che non favorisca momenti di aggregazione interni ed esterni al gruppo, con tutta probabilità non è un luogo idoneo allo sviluppo integrale della persona.
Il secondo strumento è educare il meccanismo della gratifica. Il programma tecnico è un buon alleato per i primi tempi, perché dosa incrementalmente massicce dosi di…frustrazione. Tecniche nuove e complesse richiedono tempo, così come la possibilità di sostenere esami di grado dignitosi.
Arriva però presto o tardi il momento in cui il praticante si trova a possedere un bagaglio tecnico che gli consente di cavarsela decentemente il più delle volte. Un po’ come una certa padronanza dell’Inglese ti permette di gestire la maggiorparte delle situazioni all’estero.
La noia, la supponenza, la mancanza di stimoli diventano qui un meccanismo esplosivo. Come allievi ci si può rifugiare in ciò che si conosce già, perché è costato fatica, tempo, soldi.
In questi casi il principale alleato è somministrarsi nuove difficoltà in modo intelligente.
Non è intelligente picchiarsi come fabbri e non è intelligente fermare l’avanzamento di grado di un allievo: lo facciamo per testare la sua resistenza (ma poi perché?) oppure ci comportiamo nei suoi confronti come un pusher qualsiasi?
E’ invece più salutare lavorare con i propri compagni di pratica in modo sempre più franco per limare difetti attitudinali, fisici e tecnici, nel limite del possibile. Laddove la medesima tecnica svolta in modo automatico risulta fluida perché non trova un’opposizione costruttiva, lì non c’è possibilità di crescita.
La modulazione del meccanismo della gratifica si perfeziona inoltre obbligandoci a coltivare anche altri interessi al di fuori della pratica. A monitorare costantemente la qualità del nostro ingaggio nelle attività e nelle relazioni quotidiane. E laddove il termometro segni un ribasso, occorre verosimilmente controbilanciare l’intensità della pratica con un analogo impegno al di fuori.
In definitiva, che cosa è che ci dà piacere? Una dipendenza che di fatto non riusciamo più a spiegare o la consapevolezza di poter disporre di un ambiente in cui rielaborare il proprio vissuto per poter offrirci la versione migliore di noi stessi?
Noi siamo convinti che, nella relazione di coppia come nella relazione con una disciplina, la Luna di Miele possa essere un processo senza fine. Molto più ampio di quella decina di giorni iniziali in cui, se potessimo, andremmo anche a dormire vestiti col gi.
Non è un processo per niente facile ma è molto semplice: è “sufficiente” avere il coraggio di farsi le domande di qualche riga sopra. E guardarsi allo specchio, decidendo di prendere in mano la nostra vita, la nostra pratica in modo responsabile.
Riscoprire ogni volta i perché, ogni tanto riducendo volontariamente le “dosi” e permettendo che l’astinenza sveli i motivi reali di un’abitudine, dandoci il tempo di purificarli e di comprendere per esempio se noi, per i nostri bisogni di crescita, ci affidiamo a uno spacciatore o a un amico fidato. A chi alimenta la nostra potenziale dipendenza o a chi supporta una crescita organica.
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