Oggi mi hanno dato il decimo dan ma nessuno mi fa gli auguri…

Scrivi amen e condividi.

Se siete sui social network da un po’ di tempo, sicuramente vi sarete imbattuti nei post “metti-mi-piace-e-condividi”.

Ci sono diverse varianti: da foto di cuccioli a foto di politici, da tramonti a immagini più o meno sacre e a tema religioso. Queste ultime differiscono un poco nella call to action, dove al “mi piace” si sostituisce un “amen”, ma il meccanismo rimane quello.

L’espansione dei sistemi di generazione di immagini basate su algoritmi di intelligenza artificiale, ha rotto gli argini già deboli della tenuta dei social network. Siamo stati inondati nell’ultimo anno di immagini quasi realistiche.

Un occhio attento e una mente che sia un po’ allenata a fare una minima ricerca delle fonti, colgono subito la finzione. O quantomeno accendono tutte le spie del dubbio sul cruscotto di controllo che dovrebbe stare più o meno a metà strada tra il cuore e il cervello di ciascuno di noi.

Ma quando questo cruscotto risiede nella pancia, l’occhio non è allenato e una certa capacità di filtrare le informazioni in ingresso è limitata, allora parte la raffica di richiesta di cuoricini e condivisioni. Non importa se di unicorni a due teste, di gatti con occhi più grandi di un fanale o di immagini che nemmeno Walt Disney avrebbe saputo concepire.

Un filone particolare è rappresentato da immagini di anziani soli, di fronte allo spettatore. Lo sguardo triste. In primo piano, su un tavolo, una torta. Il testo che le accompagna varia da:

Oggi è il mio 98 compleanno ma tutti si sono dimenticati di me”

a

Ho preparato questa torta per mio nipote che compie 7 anni ma nessuno la apprezza“.

Mettere il “mi piace” e condividere dovrebbe servire, nella prospettiva di chi legge, a valorizzare e rendere meno sola la persona ritratta. Che però, di fatto, non esiste.

Potremmo chiederci perché ci sia così tanta gente che crea immagini finte per tendere tranelli emotivi a un gran numero di utenti. Potremmo anche chiederci come sia possibile che uno caschi, nel 2025, nella rete delle catene di Sant’Antonio.

Invece oggi ci facciamo altre domande. Il pretesto è l’immagine di copertina di questo post, che è ovviamente stata generata con DeepAI.

Le locandine degli stage di Aikido, a volte, hanno un po’ il sapore del “metti amen e condividi”. Una sorta di rito di clan, che si celebra ciclicamente all’interno di piccole cerchie, dove la condivisione è l’espressione dell’affetto di un bravo figlio e il “like” del sensei alla propria condivisione è la ricompensa, la carezza digitale del padre affettuoso… Un giorno rifletteremo sul confine tra affetto e dipendenza, tra relazioni e cordoni ombelicali ma non oggi.

Talvolta si vedono gradi e qualifiche mirabolanti, afferenti a questa o quell’organizzazione. Dan spropositati, che nella prospettiva di un’arte giapponese dovrebbero rendere il detentore una sorta di amico d’infanzia dell’imperatore del Sol Levante.

Ma così non è. Ovviamente. E il tutto si riduce, oltre all’ “Amen e condividi” a qualche foto di eventi con pochi partecipanti, salvo rare eccezioni.

Altri hanno scritto e scrivono ciclicamente su gradi e qualifiche. Molto spesso, tra le righe, il succo del discorso è “io che scrivo e che critico sono più bello e più bravo di te che leggi e che hai un ventordicesimo dan. Gné gné”.

Non siamo interessati a questa prospettiva. Ci interessa poco anche la dimensione economica, pur rilevante, sottostante il sistema di gradazione. Una certa trasparenza amministrativa, con un tariffario chiaro e consultabile, certamente gioverebbe. Non tutte le organizzazioni hanno funzionamenti chiari.

La riflessione che facciamo è che il grado e la qualifica risultano spesso l’unico “certificato di esistenza” del praticante. E quindi anche del tecnico che diventa insegnante.

Un po’ come se tutto il lavoro fatto ogni settimana sul tatami dovesse in qualche modo essere valorizzato dal grado. E non viceversa.

Probabilmente i fondatori del Budo moderno si rivoltano nelle loro urne -e questo spiegherebbe la costante sismicità del Giappone.

Relativamente all’Aikido, che cosa resta dello struscio sul tatami? Non certo una storia di medaglie né di partecipazione a tornei. E nemmeno di gare interne. La bocca del praticante può talvolta affermare: “Io non sono interessato alle patacche. Pratico per il piacere di praticare”.

Talvolta è vero. E ci augureremmo di essere tutti così angelici e disincarnati da non avere ambizioni di tipo terreno.

Poi si avvicina la data in cui i regolamenti ci consentono l’accesso a una sessione di esami e…La bocca va da una parte. Il corpo invece si macella con allenamenti spesso al limite dello spettro autistico per prepararsi a qualcosa che dovrebbe essere la celebrazione di un percorso ma che trasformiamo nella recita di Natale che facevamo alle elementari.

Per cosa?
Avere bisogno di riconoscimento è umano ed è necessario. Chi allena i bambini sa che l’esame è un momento necessario e che la cinturina colorata serve anche per coregolare il gruppo e renderlo omogeneo rispetto alla proposta didattica.

In una frammentazione spaventosa, la stessa che genera le locandine che girano sui social dove si vedono maestri con dan tendenti a più infinito, è ovvio che Aikikai eserciti un ruolo di standardizzazione percepita. Percepita non vuol dire applicata; del resto il riconoscimento di un grado da Tokyo avviene attraverso una numerosa galassia di insegnanti riconosciuti dall’Aikikai, sparsi in giro per il mondo.

Il risultato è: dalla frammentazione di stili alla parificazione del grado. Per cui coesistono sullo stesso piano praticanti funambolici come Ryuji Shirakawa che, per Tokyo, hanno il medesimo sesto dan di praticanti e insegnanti che se provassero a fare le cose che fa Shirakawa si spezzerebbero in due. A parti invertite, del resto, probabilmente il talentuoso sensei giapponese salterebbe molto meno sotto le pinze idrauliche di suoi pari grado di altre scuole.

Che cosa resta, quindi? Fin dove si spinge il bisogno di mantenere un rapporto allievo-maestro che si fonda molto spesso più sugli zuccherini dati all’ego sotto forma di gradi che su una collaborazione per la crescita reciproca e del movimento?

Quanto c’è di gratifica al nostro ego nel grado e nella qualifica che portiamo e quanto emerge la necessità di usarlo per farsi dire -da noi, da altri- che valiamo qualcosa?

Noi crediamo nella necessità di dare costante linfa al movimento. Un movimento che certamente può avere prestigio anche da un riconoscimento di enti sovranazionali. Ma che viene riconosciuto e apprezzato dalla società per l’apporto tangibile di benessere, valori e socializzazione. Non certamente perché Tizio ha l’undicesimo dan e Caia il trentesimo.

Sotto questo punto di vista, l’entusiasmo dei gradi e delle qualifiche inferiori deve essere riconosciuto, valorizzato e supportato e a questo le organizzazioni sul territorio devono convergere. Così come dovrebbero covergere i praticanti con maggiore esperienza -e titoli.

La società -o se vogliamo definirla in termini di impatto, il pubblico– si conquista col cuore e con proposte che rispondano ai suoi bisogni. Noi crediamo che le discipline marziali possano intercettare molti bisogni che l’iniziativa di praticanti e tecnici preparati e il supporto delle istituzioni possono soddisfare.

Chissà, magari un giorno ci sarà meno necessità di dover sbandierare gradi alti di fronte a platee deserte e più esigenza di capire come rispondere alle emergenze sociali in cui possiamo, anzi, dobbiamo fare la differenza. Anche e soprattutto grazie ad una schiera di persone che non aspettino di avere quaranta anni di pratica alle spalle per restituire qualcosa del bene ricevuto.

Una cintura nera con 8-10 anni di pratica seria sulle spalle appare come un oggetto proveniente da un altro mondo agli occhi di un principiante. Al limite dell’inarrivabile. Per un avviamento serio e progressivo; per accendere e mantenere vivo il fuoco, probabilmente non servono millenni di tradizione condensati in una persona ma cento persone con una decina di anni di lavoro e di studio costanti e ben impostati. E, certo, una qualche forma di qualifica che consenta, secondo l’ordinamento vigente, di poter essere responsabile di un allenamento.

Per fare questo bisogna ritornare a toccare la realtà e farci toccare da essa. Che è un po’ la differenza che passa tra andare sul serio a trovare una persona anziana sola e condividerne un’immagine creata da DeepAI mettendo “Amen” e sentirsi così a posto col proprio decimo dan di buone intenzioni.

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