Recentemente, un’ennesima discussione da marzialisti medi – “Non frequento il gruppo del Maestro XYZ perché sono troppo fissati, lo idolatrano. Invece andiamo allo stage del Maestro QWERTY perché lui sì è troppo bravo, simpatico, ti proietta con un dito, sudi, etc. etc”- ci ha fatto riflettere su una componente che accomuna tutti i praticanti di arti marziali: una certa qual riverenza incondizionata verso i propri maestri.
La riflessione che proponiamo non vuole andare a dare etichette a questo fenomeno. Accade ed è comune.
Piuttosto è interessante soffermarci per un paio di minuti sulle qualità e le attitudini che consentono a questa fedeltà di attecchire e di sfociare, spesso, in forme prossime all’assolutismo incondizionato. Per poi capirne i pregi e individuare alcuni rischi.
Ogni do che si rispetti, così come ogni percorso di formazione, richiede una certa dose di disponibilità a farsi plasmare da una disciplina. Un’attitudine a metà strada tra quella docilità che era tanto apprezzata dalle maestre elementari quando eravamo sui banchi di scuola e un certo quale inquadramento di tipo militare.
Sono chiari i ruoli, le gerarchie, le differenze di bagaglio tecnico. A chi varca le soglie di un corso di arti marziali accade spesso di sentirsi spaesato e di aggrapparsi, quasi letteralmente, al maestro che guida il corso, a qualche allievo anziano, a qualche lettura, a qualche abitudine che diventa rito.
Nell’immaginario comune, spesso rilanciato anche da tanti bei post e immagini suggestive sui social network, il sensei ideale è colui che si spoglia lentamente di tutte le proprie conoscenze per dare ai propri allievi gli strumenti necessari per fare un percorso di libertà facilitato dall’arte che si studia.
Spesso questi post sono fatti dagli allievi del summenzionato Maestro.
Manifestazioni commoventi di affetto? Evidenze di un lavoro ben svolto? Segni di una distorsione del rapporto in nome di una sudditanza malcelata?
Al di là e oltre queste considerazioni, resta il fatto che la strada per cercare di vivere questa libertà passa da rapporti di subordinazione. C’è chi insegna e c’è chi studia. C’è chi è più avanti nella pratica e chi più indietro.
E’ questo paradosso –libertà nella subordinazione o se vogliamo libertà nell’obbedienza– che stimola la riflessione più nascosta.
In fondo, se siamo entrati nelle dinamiche di un dojo e siamo rimasti nonostante noi e nonostante tutto, è perché un lato della nostra personalità in qualche modo è attratto dai meccanismi sottostanti l’alterità nella subordinazione.
E questo è un po’ sotto gli occhi di tutti. Da chi dice che è disinteressato dai gradi e poi diventa un esempio di ansia da prestazione per gli esami, a chi cambia casacca a seconda della qualifica che gli viene promessa, a chi segue il famoso maestro QWERTY anche in capo al mondo sebbene sappia esattamente quali esercizi il maestro proporrà di lì a pochi minuti, a chi cerca di ingraziarsi Tizio o Caio postando in continuazione sue foto, a chi denigra pubblicamente il maestro Tal dei Tali perché sa che ha avuto screzi col suo sensei…
L’elenco è lungo e potrebbe continuare per pagine. Se poi tocchiamo il tasto “insegnamento”, possiamo essere testimoni di quanti agnelli mansueti si trasformano in competitivi lupi per poter guidare questo o quell’allenamento, seminar,…
Offrire la propria libertà, la propria obbedienza, il proprio tempo: questo è sicuramente uno dei gesti più alti che l’essere umano possa compiere.
A patto che si abbiano a disposizione alcuni sensori per verificare puntualmente che questa scelta sia fatta in nome di una libertà più ampia e che porti una certa qual utilità personale, in termini di crescita umana e tecnica.
A poco varrebbe diventare i… Fedeli sudditi di sua maestà il sensei XYZ se poi questo ci rendesse totalmente incapaci di relazionarci col mondo esterno. Esattamente come il viceversa: se diventiamo dei PR bravissimi ma le nostre tecniche sono inesistenti, probabilmente stiamo sprecando il nostro tempo.
La qualità tecnica e la qualità delle relazioni sono due indicatori molto potenti del livello di salubrità dell’aria che si respira in qualsiasi ambiente formativo. La crescita tecnica, nonostante le difficoltà, è tangibile? Siamo invitati a fare esperienze anche al di fuori della nostra comunità? Che rapporto abbiamo dentro e fuori il dojo con le nostre compagne e i nostri compagni? Esistiamo solo per quelle ore o sappiamo incontrarci anche al di là della disciplina?
Rendere il tutto una sterile liturgia è un attimo. Ed è un rischio che riguarda tutti.
Si va non perché si è convinti ma per non dare dispiacere al Maestro. Si insegna magari senza coltivare quel fuoco interiore che ci aveva fatto innamorare della materia. Ci si sprofonda nel cerimoniale giapponese, ultra rispettoso, e poi si sparla di chi non c’è. Si finisce addirittura col credere che le gerarchie debbano continuare là fuori…
Insomma, dietro l’abitudine, quando non la ricerca, della subordinazione, c’è un mondo che viene mosso da tanti soggetti: il nostro ego, le nostre insicurezze, le nostre manipolazioni, le nostre aspirazioni profonde anche se non consapevoli.
Del resto… Al di là degli stereotipi hollywoodiani in cui l’eroe senza macchia riscatta a volte il mondo intero grazie ad atti di conclamata insubordinazione, l’indisciplina è un lusso che solo una libertà perfettamente educata e sviluppata può permettersi, senza ledere chi la mette in atto o l’ambiente circostante.
Non è un caso se tra le tanto note virtù del bushido, che fanno bella mostra di sé nelle pieghe nascoste di un’hakama, sono presenti 義, (Gi-l’onestà e la rettitudine), (礼, Rei: il rispetto cortese) e 忠義, (Chugi- il dovere fedele) e non è citata la libertà.
Non solo e non tanto perché la libertà sia un concetto fondante l’occidente al pari dell’armonia, pilastro del pensiero orientale, il quale vede la libertà come qualcosa di potenzialmente dannoso per l’armonia. Ma perché al fondo del do si trova quella libertà che tutti diciamo di volere e che pochi raggiungiamo.
Spesso confondendo servilismo con lealtà, immaturità con devozione, mancanza di alternative con fedeltà, paura con rispetto e interesse con amicizia, branco con comunità, mezzo con fine.
Dimenticando che non c’è progressione senza pratica su di sé e non c’è pratica su di sé senza un rapporto sereno con il prossimo.
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