Nelle Arti Marziali si sente dire spesso che una tecnica è ben fatta quando si riesce a incanalare e restituire al compagno l’energia contenuta nel suo attacco.
Indubbiamente questo è vero e funziona. Altrettanto indubbiamente, questa attitudine rimane spesso una chimera per varie ragioni.
All’energia del compagno spesso aggiungiamo la nostra: per insensibilità, per inesperienza, per paura, per far sfogare il nostro ego represso e imbrigliato poco e male da schemi comportamentali, etici e morali che facciamo fatica a fare nostri.
Accade anche l’opposto: si riesce a restituire di meno (o non si riesce affatto).
Ci lascia sempre perplessi ascoltare o leggere affermazioni perentorie che vengono da questa o quella persona che asserisce senz’ombra di dubbio: “L’Aikido, (il Judo, il Karate, il Kendo,…) è…”
Come si può condensare un patrimonio tecnico e di crescita interiore in una frase, confinandolo in una definizione?
Eppure, in questi giorni, spesi in paesini del Sud Italia, in una cultura certamente connessa alla realtà globale ma ancorata tuttora saldamente a principi etici robusti, emerge con forza una caratteristica di questo percorso, di questo “do” che per noi è l’Aikido, ma che può essere qualsiasi disciplina (marziale o meno).
Succede che, andando a far visita ad un parente che abita in un piccolo paese in cui tutti ci conoscono, veniamo letteralmente “adottati” per una giornata. Circondati dalla cortesia, dall’affetto e dall’umanità (intesa proprio nel senso di 仁,jin, che è qualcosa di più sottile della semplice compassione, una delle virtù del bushido), siamo tornati a casa colmi tanto di gratituidine quanto di doni inaspettati: pane, vino, frutta, formaggio.
Insomma, quando c’è armonia, quando c’è serenità nei rapporti -oseremmo dire: quando c’è amore, non solo non esiste “attacco” ma si riceve spesso un’energia decisamente superiore rispetto a quella che ci si attendeva.
Allora l’elemento della nostra disciplina che può rispettare e onorare questo enorme fluire silenzioso di bene (che non mette a tacere le cose che non vanno e non le annulla, ma non ne viene arginato), diventa davvero la restituzione.
Restituire inteso come non impedire il bene.
Restituire inteso come prendersi cura di chi abbiamo intorno: dedicandoci pazientemente alla nostra crescita, a quella di chi è meno esperto di noi e a quella di chi è avanti a noi.
Restituire inteso come diffondere quegli strumenti che ci permettono di godere di questi momenti, di avere spazi e tempi per provare ad essere persone migliori.
Restituire inteso come riempire davvero di un senso tangibile quell’involucro di cotone bianco tenuto su da una citura più o meno scura: se non diventiamo strumenti che diffondono verità e bellezza, a cosa serve tutto il nostro affannarci sul tatami?